Cesare Lipparini, ‘Scaniglia’

Nasce a Massa Marittima il 4 luglio del 1925.
Il padre Giulio, originario di Bologna dove ha frequentato un collegio con Guglielmo Marconi, è proprietario di una calzoleria che fabbrica scarpe anche per i Distretti Militari di Siena; la madre Enrichetta Spinicci è di Follonica, nipote di un ex garibaldino che aveva combattuto sul Volturno con Giuseppe Garibaldi.

Cresciuto in una famiglia dai sentimenti avversi al regime, Cesare fin da ragazzo ha modo di frequentare l’ambiente antifascista anche nello stesso stabile in cui abita. I primi rudimenti che contribuiscono ad aprirgli gli occhi sulla realtà glieli fornisce un vecchio socialista originario di Modica (RG), il grande invalido Pietro Antimi, ma è molto importante anche il suo assistere ai continui arresti di un altro vicino di casa, quel Silvio Quintavalle (vedi Biografia R/esistente), anarchico preventivamente fermato dalle camicie nere (assieme ad altri antifascisti come Libero Corrivi ed i fratelli Gasperi) ogni volta che Duce, Re o qualche gerarca si avvicinano al territorio comunale, anche semplicemente transitando in treno da Follonica.

Altri fatti colpiscono i suoi sentimenti: è giovane testimone di numerose e sproporzionate aggressioni subite da giovanotti tenacemente antifascisti come Enrico Filippi, Otello Gattoli, Elvezio Cerboni, ripetutamente provocati e picchiati da gruppi di fascisti.
Anche suo padre, una volta, viene schiaffeggiato per non essersi tolto il cappello al passaggio di un corteo fascista.

Con queste premesse, all’indomani dell’8 settembre, la scelta di Cesare avviene veloce e spontanea: diciottenne, decide di non presentarsi al ricostituito esercito mussoliniano e di rifugiarsi nelle conosciute macchie di Settefonti, insieme ad una decina di giovani massetani tra i quali Piccioli, Menichetti, Venturi. Non prima, però, di essersi tutti procurati armi per lo sbandamento di reparti della Divisione Ravenna, acquartierati in Poggio a Massa Marittima.

Frattanto anche altri due gruppi di antifascisti massetani si sono formati all’Uccelliera o in altre macchie: si tratta del gruppo dei fratelli Zazzeri, inizialmente autonomi, e di quello più numeroso che comprende gli “storici” Gattoli, Cerboni e Filippi (che saranno accomunati anche nella dura sorte di restare vittime dei nazifascisti) con molti altri giovani come Giovannetti, Petrai, Martellini.
Tutti questi gruppi per un certo periodo si riuniranno nella c.d. Banda del Massetano, prima di ridiversi per vari motivi di numero, di strategia ma anche di colore politico.
Questa attività partigiana può contare su una fondamentale ed estesa rete di solidarietà e di protezione preparata da anziani antifascisti. Cesare Lipparini ricorda il lavoro dello stagnino Antonio Bizzi, importante punto di riferimento, e della staffetta Vasco Bernardini, fornaciaio a Schiantapetto.
Altra imprescindibile figura è Ugo Ugolini, del podere Montalto in località La Stima, sulla strada per Gerfalco: saranno lui e la sua famiglia a dare precise indicazioni, nascondere o accompagnare decine e decine di giovani che scelgono ‘la via della macchia’.

Le prime importanti azioni, ‘Scaniglia’ le compie sotto il comando del capitano Mario Chirici che subentra a Cerboni nella gestione della Banda ormai divenuta IIIa Brigata Garibaldi “Camicia Rossa”: l’assalto ed il disarmo della caserma Dicat di Massa Marittima, l’occupazione momentanea di Monterotondo Marittimo, la cattura di un pullman di carabinieri fascisti che vengono disarmati e rilasciati dopo una votazione tra i partigiani.
Riparato nei capanni preparati, tra gli altri, dai fratelli boscaioli Albore e Chiaro Mori, vecchi e incrollabili antifascisti, conosce e combatte con Vittorio Ceccherini, Mauro Tanzini, Asdrubale e Rizzago Radi, Enzo Billi.
Lipparini ha modo di conoscere anche il dottor Giorgio Stoppa, il comandante ‘Paolo’ della XXIIIa Brigata Boscaglia: insieme al massetano Renato Petrai e al pratigiano ‘Maestro’ Piombini, forma un trio di scorta e guida al comandante, a tre partigiani stranieri (un inglese, un sudafricano ed uno del Madagascar) e ad un partigiano follonichese (forse Stefanini) che vengono fatti trasferire per una missione nel senese con la consueta, importante collaborazione di Ugo Ugolini.

E’ ancora in missione verso Siena il 13 o il 14 gennaio ’44, allorchè viene catturato per un’imprudenza commessa a Radicondoli: con Petrai, Piombini e Giovannetti tentano di salire su una corriera ma, precedentemente riconosciuti in paese dal noleggiatore Ernesto, sono arrestati da carabinieri repubblichini. La mattina successiva, approfittando della visita in caserma del giovane figlio della cuoca che si fa aprire il portone principale, tentano di scappare ma la fuga riesce al solo Giovannetti: gli altri vengono picchiati in cella.
Sono circa cento i giorni passati prigioniero tra Radicondoli e i carceri di Siena prima e delle Murate a Firenze poi: l’attesa della annunciata fucilazione (con l’imputazione di ‘renitenza alla leva’) viene comunque vissuta con la lieve incoscienza di un diciottenne che solo prima di dormire, talvolta, si abbandona allo sconforto. A Firenze divide la sorte, tra gli altri, con l’anziano professor Scarafia, direttore di una scuola per interpreti, che lo consola con una frase che lo colpisce, “Ricordati che in tempo di dittatura la galera è la casa dei galantuomini” gli ripete.

Ma Cesare assiste anche al ritorno dalle camere di tortura di altri detenuti, soprattutto di quelli condotti alla famigerata ‘Casermetta’ di Siena. E’ ancora ben vivo il ricordo di un antifascista di Castelnuovo Berardenga, un ex pugile sopraffatto per strada solo grazie al numero degli assalitori, cui vengono prima fatti gelare i piedi nell’acqua fredda e quindi frustati con la fibbia di una cintura: pur in mezzo a indicibili dolori, il compagno ‘tiene’ e non parla.

Alcuni decidono di fingere di aderire all’ultima proposta concessa per sfuggire a fucilazione o deportazione: Cesare si fa arruolare ed approfitta della possibilità di farsi inquadrare come ‘cameriere’ alla Scuola Allievi Ufficiali di Siena. Una volta lì, dispensato dai servizi armati, è facile far perdere le proprie tracce e lui lo fa insieme a due infermieri dell’ ospedale Militare, il compaesano Giuliani ed un altro originario dell’Isola d’Elba.
A piedi, avvertito dalla rete di staffette antifasciste di evitare la vigilata Rosia, in varie tappe raggiunge Massa Marittima dove sfugge ad un rastrellamento: è ancora l’instancabile Ugolini a ricondurlo tra i partigiani, questa volta della XXIIIª Brigata Boscaglia, dove viene affidato alla squadra ‘Fil di Ferro’, quella del monticianese ‘Franco’ (Roberto Galli, vedi Scheda Partigiana) di stanza presso Belcaro e per la quale combatte gli ultimi venti giorni di vita partigiana, prima di essere disarmato dagli Americani in quel di Gerfalco.
Dopo la Liberazione, Lipparini si iscrive per breve tempo al PCI, poi si ritira definitivamente dall’agone politico, pur conservando a tutt’oggi l’orgoglio della propria militanza partigiana, della quale è disposto a dare lucida e particolareggiata testimonianza alle iniziative A.N.P.I.

(Scheda di Aldo Montalti, tratta dalla testimonianza rilasciata dal partigiano Cesare Lipparini il 7 marzo 2011)