Lambardi Mario

Mario Lambardi , “Toscano

Partigiano del II° Btg. Zignago, Brigata di Giustizia e Libertà in provincia di La Spezia.

[Montieri, 31 luglio 1924 – Massa Marittima. 11 febbraio 2016]
Registrazioni: 24 febbraio, 2 – 8 -16  marzo 2011

DOVE ANDRAI NON TI DIRANNO BUONASERA


Sono nato a Montieri. A Massa sono arrivato da grande, nel mese di aprile del 1955. La mia famiglia era una famiglia agricola, proprietaria di un piccolo podere sulla strada che da Montieri porta a Chiusdino, il podere Prugnoli. In famiglia s’era in quattro, babbo, mamma e due figli maschi, io il maggiore. Il babbo era nato lì e portava avanti il lavoro insieme alla mamma quando s’era piccini. A Montieri sono stato sempre, anche quando mi sono sposato: mia moglie era di un podere vicino.

In agricoltura quando uno ha una decina d’anni comincia a lavorare, se non altro sta a guardare le bestie: s’aveva bestie vaccine da lavoro e pecore da carne; nei campi si coltivava grano, avena, un po’ per noi, un po’ per le bestie. Il podere aveva anche un pezzo di castagneto con l’essiccatoio per fare la farina per noi e per le bestie; si faceva il formaggio ma solo per casa.
Sono andato anche un anno in miniera, nel 1942, alla Stima, per vedere se riuscivo a non andare militare. Avevo 18 anni. La Stima era una miniera di pirite, uno stabilimento ausiliario che lavorava per lo Stato, per farlo funzionare facevano tornare addirittura gli uomini dal fronte.
I primi di gennaio del 1942 ero già in miniera: mi hanno messo sotto torchio, a spingere i vagoni o a fianco di un minatore. Ci sono stato un anno. Il babbo mi aveva comprato la bicicletta e tornavo a casa in bicicletta, molti tornavano a piedi.

L’intenzione era di salvarsi dal militare. Invece verso gli ultimi dell’anno arrivò un ordine nazionale per cui i militari di leva non potevano essere trattenuti in miniera.  Mi dovetti presentare militare a Grosseto. S’era in diversi del ’24.
Mi mandarono anche al Distretto di Firenze per una visita approfondita perché mi lamentavo che stavo male. Ero un po’ magro, ma a Grosseto il capitano medico mi guardò parecchio e disse pari pari: “Io ti mando a Firenze, ma ritornerai qui”.
Infatti a Firenze non combinai niente. Nel viaggio d’andata capitai in un bombardamento alla stazione ferroviaria di Pisa. Si riparò nei due rifugi sotto la stazione. Sennonché a Firenze quel giorno non si arrivò perché la stazione di Pisa era saltata in aria. Ci misero in un campo e il giorno dopo mandarono un treno da Firenze che si fermò fuori della stazione. S’arrivò a Firenze nel tardo pomeriggio: si pensi come andavano i treni.
Mi presentai all’ospedale militare che era vicino alla stazione, ma era già tardi. Ci dettero un posto per dormire. Tanto per cominciare mi presi i pidocchi. Intanto erano passati due giorni. Mi visitarono, ma sostanzialmente non avevo niente, ero molto alto, 1 metro e 78 e 90 di torace, un po’ magro ma niente da dire. E mi rimandarono a Grosseto.

Tornai a Grosseto con i pidocchi. Tornai al Distretto di Grosseto che era nelle mura. Il capitano quando mi vide arrivare disse: “Te lo dicevo!”.
Gli altri erano stati già mandati via, a Palermo, e furono subito presi prigionieri dagli americani.
Il capitano di Grosseto si chiedeva: “Ora questo [dove lo mando]?”.
E di nuovo mi prese le misure, altezza, torace, ecc. “Questo si manda a Siena, 5° Reggimento Bersaglieri”. Mi sembrò di essere fortunato rispetto a chi era stato mandato in Sicilia.  Mi fecero i documenti e mi spedirono a Siena.  La sera tornai a casa. Per fortuna c’era uno di Montieri che mi ci portò.
Questo fu tutto quello che ci guadagnai: invece di andare a Palermo andai a Siena. A Siena mi chiesero cosa sapevo fare, se sapevo scrivere, che studi avevo fatto (ufficialmente ho fatto la quinta elementare ma il prete di Montieri, grande amico del babbo perché la nostra era una famiglia cattolica, mi faceva adoperare la macchina da scrivere e mi aveva fatto imparare).

A Siena mi assegnarono una branda e mi dissero: “Domattina se ne riparla con lei”.
La mattina dopo mi dissero: “Te devi fare il corso di sottufficiale”. Però dovevo fare l’istruzione come tutti gli altri [soldati semplici]. La sera, quando gli altri avevano la libera uscita, dovevo andare a scuola per fare il corso, che durò diversi mesi. Arrivai in fondo senza preoccupazioni.
Sono un tipo che piuttosto che comandare, le cose le faccio da me. E mi fecero fare le prove per comandare prima della fine del corso. Mi fecero l’esame e in fondo al risultato scrissero “Idoneo”, ma con “Scarsa propensione al comando”. In effetti avevano ragione. Perché quando si comanda qualcuno, quello protesta e io piuttosto che … le cose le facevo da me. Il corso mi permetteva di passare a caporale, caporal maggiore e sergente: i sottufficiali finiscono con questo grado.
Passò del tempo, passò l’estate. Decisero di mandarci a Cervignano del Friuli, vicino a Udine. Siamo nel 1943. Si stette pochi giorni, facendo sempre istruzione, io con il grado di caporal maggiore. Ad un certo punto, dopo diverse settimane, la mia compagnia con gli ufficiali, viene mandata a Lubiana. Per fortuna ci si stette poco: quando s’andava fuori la sera si rischiava di essere ammazzati dagli jugoslavi, anche se a me non è mai successo niente.
Intanto mi avevano dato il grado di sergente.
A Lubiana ci colse l’8 settembre. L’esercito era agli ordini di Badoglio anche se Mussolini era stato estromesso. Si credeva che la guerra fosse finita, si era disorientati.
La mattina dopo, quando ci si alzò, non c’era più neanche un ufficiale, erano scappati tutti! Cosa si doveva fare? Noi si fece uguale.

Si prese il primo treno che andava verso Trieste, verso l’Italia. Se si poteva chiamare treno! Erano treni merci, del resto s’era disertori!
Per farla breve si rientrò con la collaborazione dei ferrovieri, persone molto valide, che ci facevano scendere prima delle stazioni importanti e ci facevano risalire dopo. Così facendo, scendendo e salendo dai treni, arrivai a casa dopo 70 giorni, questo perché non sempre c’era la possibilità di avere a disposizione un treno, un treno merci. Capitò dei giorni che non si viaggiò affatto.
Durante il viaggio si cominciò a dare l’assalto ai panni per togliere le divise e vestirci da civili. Era un fatto grave: diserzione. Della Toscana s’era in due o tre. Alcuni erano rimasti a Lubiana perché non avevano avuto il coraggio di partire.
Per mangiare devo dire che dal popolo abbiamo avuto un grande aiuto, ci volevano bene.
Quando arrivai a casa era tardi e seppi che mi avevano cercato continuamente già come disertore. I miei rispondevano che non mi avevano visto, ma la faccenda era grave. Avevo dei parenti a Chiusdino, nella frazione di Frassini, perché la mi’ mamma era di là. Ci andai subito, per vedere di passare il tempo fino alla fine della guerra. Questa permanenza durò poco perché alla fine dell’anno a Montieri successe un macello. La gente si ribellò e il capo fascista sparò dalla finestra del Comune e ammazzò due persone. Come se non bastasse insieme ad altri, arrestarono anche il mi’ babbo e lo portarono alle carceri di Massa, il motivo era che mancavo io, non perché lui avesse partecipato alla manifestazione. Il babbo soffriva di cuore, era messo male; il giorno dopo da casa mia mandarono qualcuno a cercarmi per dirmi cosa era successo. Che avresti fatto? Non mi rimase altro che ritornare la stessa notte e ripresentarmi dopo un paio di giorni a Montieri dai fascisti, (siccome c’erano dei giorni in cui ci si poteva presentare). Il giorno dopo ritornò il babbo da Massa.
Ripartii per Siena dov’era il mio corpo e ci rimasi un paio di giorni e poi ci spedirono direttamente in Germania a formarci veri soldati.

A Siena il comando l’avevano preso i tedeschi.
Di Montieri ero solo, tutti gli altri erano andati in Sicilia, come ho detto. S’andò a sud della Germania, a Festem [?], dov’era il nostro campo. A tutti ridiedero il grado che avevano avuto. Dopo due o tre giorni ci mandarono a Berlino perché la città era stata bombardata. Hitler non stava a Berlino ma nella sua residenza in Austria, in Tirolo. Ci mandarono su per sgomberare le macerie, levare i morti. Partirono due pullman, cento soldati. S’era con la divisa dei bersaglieri ma sotto il comando tedesco. Non le dico cosa poteva essere Berlino: morti da tutte le parti. Ci si stette 15 giorni a recuperare morti e sotterrarli. Prima ci si interessò a quelli che potevano essere ancora vivi, i feriti, poi si dovette passare ai morti. Siccome bene o male ero un graduato, le cose le facevo, ma poche, di più ci mettevano le mani i soldati.
Si tornò indietro e al campo, in questa cittadina a sud della Germania, finirono per farci il culo, ossia l’istruzione alla tedesca.

Nonostante questo ero sempre sergente. Mi toccava sì, ma un po’ meglio mi andava.
Si stette lì fino al maggio 1944. Ci avevano fatto un corbello. Hitler e Mussolini vennero a passarci in rivista. Mussolini ottenne che gli italiani sarebbero tornati in Italia e meno male!  Eravamo tutti schierati; come graduato stavo in parte e li vidi passare vicini a me, incappucciati perché faceva ancora freddo. Avevano formato due divisioni – ogni divisione è di 10.000 uomini ca.
Dopo tre giorni ci rimandarono in Italia: la divisione Italia e la divisione Monterosa, tutti dotati di armi; accanto alle tradotte viaggiavano i camion pieni di vettovagliamento. La Monterosa era destinata alla fascia orientale dell’Italia, la costa Adriatica; la divisione Italia al Tirreno. Io ero con la divisione Italia.
Dai treni non si poteva scendere, c’erano le sentinelle.
Di notte si passò il Brennero; tutte le mattine si faceva l’adunata, l’appello, e si doveva presentare la forza. Dopo il Brennero cominciarono subito a mancare soldati dell’alta Italia: durante la notte scappavano; figurarsi se le sentinelle sparavano. Noi, i toscani, ancora no, perché si doveva arrivare più giù. A Bolzano mancava qualcun altro, il treno andava come poteva, ogni tanto si fermava perché la ferrovia era bombardata; a Verona cominciarono a mancare quelli dalla parte del Veneto: tutti i giorni mancava gente. E che gli facevi? Il pensiero di scappare ci venne se non a tutti, quasi, ma non se ne poteva parlare, tanto più io che ero un graduato. Alla fine tra il pensare e il fare solo quelli che ebbero il coraggio scelsero la fuga [1] . I treni erano stati abbandonati, si procedeva coi camion e a piedi.
Si arrivò verso Parma, in una località chiamata Bedonia [2], lì ci fecero fermare. A Bedonia allestimmo il campo e ci misero a riposo, con un servizio di sentinelle. Capitai in tenda insieme ad un sergente dell’Elba – che non ho più ritrovato, non so neanche se è vivo – si chiamava Giuseppe. Il primo giorno non successe niente. Il secondo giorno, insomma … Poi a stare lì tutto il giorno … Io stavo zitto, lui lo stesso: ma ognuno pensava la stessa cosa, scappare. I primi giorni c’era stato bisogno anche di riposarsi. Passate un po’ di notti a riposo, l’uomo cambia. Il terzo giorno …

Bisogna pensare che andati via di lì saremmo andati al fronte, verso Castelnuovo Garfagnana, sotto il fronte c’erano gli americani, lì passava la Linea Gotica, cominciava da Pietrasanta e andava verso l’Adriatico. Fortunati quelli che erano presi prigionieri dagli americani!
Il terzo giorno, di sera, si disse: “Insomma, cosa si fa? Via di qui si va al fronte”. “Ma io … non sarei mica tanto disposto”. Allora si cominciò a ragionare diversamente.
Si stette tutta la notte in bianco a confabulare. Tutte le mattine mettevano le sentinelle nuove e facevano l’appello. Si cercava di studiare chi fosse la sentinella migliore per noi, perché ci voleva la loro complicità. Se ne dovette scegliere una. Gli si disse quello che si voleva fare per quella sera.
La sera, dopo cena, verso le undici, mezzanotte, s’arrivò dalle sentinelle. Da principio s’era due poi cominciò a arrivare altra gente. Si aprì un varco. Quelli che vollero vennero dietro, tra tutti saranno stati un centinaio. Una volta fuori ci si sparpagliò. Io e Giuseppe si rimase insieme, con altra gente, in particolare uno che era sempre rimasto con me, Angiolino Mori di Gerfalco.
Dalla tenda si portò via tutto, rimase solo la tenda e la branda. S’aveva i documenti, le carte topografiche, le armi. Si passò la notte all’aperto. Poi ognuno pensò per sé.
Noi si doveva procedere verso sud, verso la Lunigiana. Giuseppe si mosse invece verso destra, verso la Liguria. Non si poteva passare il fronte.
Intanto s’era abbastanza occupati a cercare di cambiare panni per buttare via le divise: se avessimo trovato qualche partigiano ci poteva anche fucilare. Si doveva trovare anche da mangiare.  La storia dei panni si ripeteva per la seconda volta.
Rimasi con questo Mori di Gerfalco.
Si attraversò la strada e ci si rivolse verso la Toscana, evitando le strade, procedendo sempre a diritto, su e giù per le montagne.

Dirlo è una parola, ma farlo sono chilometri. Ogni tanto si trovava frutta, ciliegi: era quindi il mese di giugno o luglio.  Un bel giorno, sarà stato il terzo giorno, si sente dei passi sul sentiero e si vede venire verso di noi un ragazzo, giù per il viottolo, era armato. Non ci aveva visto. Ci si rimpiattò nel bosco e quando passò si uscì fuori e lo disarmai: “Sta’ calmo, non aver paura!”. Angiolino lo teneva sotto tiro. Gli si chiese se era un partigiano e alla sua risposta gli si chiese di accompagnarci al comando.
Il ragazzo ci portò al comando del suo battaglione partigiano sull’Appennino tosco-emiliano. Lui andava avanti e noi dietro. S’era esposto un fazzoletto bianco sulla canna del fucile.  La brigata era di Giustizia e Libertà [3], una brigata “bianca”, quindi portavano il fazzoletto bianco al collo. La brigata era comandata da un vecchio capitano, nome di battaglia Boia, disertore come noi e come molti dei partigiani. Per prima cosa si lasciò giù le armi. Il comandante sapeva cosa era successo, voleva la conferma: “Si sa cosa è successo a Bedonia”. Ci interrogò: “Sì, siamo noi”, si disse “Si vuole tornare in Toscana, nella speranza di tornare a casa”. Lui rispose: “Ah! In Toscana ci potete andare, ma a casa … per l’amor di Dio!“.
Ci fece raccontare com’era andata la diserzione.
“Se volete rimanere con noi potete rimanere”. “Noi si vorrebbe scendere in Toscana”. E lui: “Di tornare a casa non ci pensate nemmeno. Se volete andare io scriverò un appunto su un foglio perché di là [dai monti] c’è un capitano amico mio [4]. Ci vorrà del tempo, ma di tornare a casa non ci pensate nemmeno”.
Scrisse un biglietto e ci riconsegnò le armi.  Si camminò una settimana. Ci si doveva fermare anche a mangiare, quello che si trovava, frutta, patate, che si cuocevano nella gavetta.  Si arrivò in una località chiamata Montelama [5]  che a quell’epoca contava 19 famiglie, in provincia di Massa Carrara. Questo battaglione era comandato da un altro capitano, Ermanno Gindoli, ex-soldato che aveva conosciuto mio zio, Fortunato da Frassini, perché era stato nella sua stessa compagnia.
S’arrivò verso mezzogiorno. C’era una trattoria sulla strada la trattoria “da Gina”, ci si fermò a mangiare. Nel mentre capitò un ragazzo. La donna della trattoria disse al ragazzo di portarci al comando.
Mi presentai al capitano e diedi il documento che mi aveva fatto l’altro e anche lui volle sapere cosa ci era successo perché lì sapevano poco della diserzione. Ci chiese il nostro nome – allora oltre al nome e cognome si dichiarava anche paternità e maternità: Lambardi Mario di Alebrando e da Frassini Annunziata, la mia mamma. Frassini era nel comune di Chiusdino ma essendo un piccolo borgo aveva dato il cognome anche agli abitanti: da là veniva la mia mamma.
Il capitano alzò la testa: aveva conosciuto mio zio a La Spezia nel 21° Fanteria. Erano stati mandati in Sicilia, lui e mio zio; il capitano aveva avuto un permesso per venire a casa. Mentre era a casa c’era stato l’8 settembre, perciò non tornò più.  “Frassini? Ma è possibile?”, fece il capitano. “Ma guarda! Ma senti! Possibile?”, continuava a dire.  Ci fece il tesserino di partigiani a tutti e due per rimanere lì, tanto, più giù non si poteva andare.
Si diventò partigiani in una Brigata di Giustizia e Libertà, 2° Btg. Zignago.
Il paese importante più vicino era Pontremoli, dove mi trovavo io era il comando di battaglione. La brigata contava una quarantina di persone. Le altre brigate erano sparse qua e là.  Gli appartenenti non conoscevano il nome e cognome vero dei compagni, ma si aveva tutti un soprannome: io avevo nome il Toscano, Angiolino, il Toscano Due.
La brigata si era sistemata in un castagneto. Il comandante aveva un ufficio suo ma dormiva in una casa, dove gli avevano dato una camera. Noi si dormiva in un essiccatoio sopra un mucchio di foglie: si dormiva bene.
La prima mattina dopo il mio arrivo mi mandano subito in un posto. C’era stato un combattimento e il compito era di tirar fuori un partigiano morto, sotterrato da diversi mesi. Non dico altro: dopo due mesi che era lì ci si può immaginare in che condizioni fosse.
Mi avevano dato questo compito perché ero l’ultimo arrivato. Comunque anche se avevo 20 anni avevo già passato tante traversie, venivo dalla Germania e non curavo tanto il solletico. E’ vero, a Berlino avevo comandato ma qui ero alla pari. Si tirò fuori questo

sciagurato da sottoterra e con la barella si portò al cimitero dove avevano preparato la cassa e la croce con nome e cognome.
Angiolino invece l’avevano mandato in un paese vicino a fare il calzolaio: doveva riparare le scarpe per i partigiani.
In quel periodo gli americani non avevano ancora fatto dei lanci aerei di materiali [7].
Quello fu il primo “giorno di lavoro”, per niente simpatico.
La mattina del secondo giorno viene a cercarmi un ragazzo: “Ti vuole il capitano”. Io penso: “Cosa vorrà?”.
Andai all’ufficio. Prima cosa quando entrai, il capitano chiuse la porta. “E questa?”, pensai. Mi prese un po’ di paura: non avevo fatto niente.
Si girava tutti armati, posai il mitra.
Il capitano aveva fatto i suoi calcoli. Essendo di Grosseto nessuno mi conosceva: molti lì erano di La Spezia, erano conosciuti, bisognava che stessero ben attenti.
Mi disse – lui dava del “tu” e non voleva del “lei” – che aveva controllato che ero stato tra i disertori e che aveva intenzione di darmi degli incarichi particolari. “Vorrei che tu stessi a mia disposizione”, disse. “Non ti conosce nessuno, quindi puoi andare dappertutto. Naturalmente non andrai solo, ma accompagnato da una squadra armata. Dove andrai se ti trovano non ti diranno ‘Buonasera’. Sarai tu comunque a presentarti, proprio perché non sei conosciuto. La squadra la comandi te e io conosco te. Tutti ti devono obbedire e ci penso io  – mi disse – Quando rientri vieni subito da me a ispondere di quello che è successo”.
Il capitano voleva vedere intanto come me la cavavo perché mi disse anche: “Poi ti dirò qualche altra cosa che ti farà comodo”.  Così cominciai: ero a disposizione del comandante.  Non ci sono mai stati problemi di insubordinazione o indisciplina con quelli della mia squadra: io ero il capo e basta. Certo Ermanno glielo avrà spiegato bene come si dovevano comportare con me.
Quando si andava fuori non bastava un giorno solo e una notte, si stava fuori diversi giorni quando si doveva andare a La Spezia o all’Aurelia o anche più in là, fino al mare.
Quel giorno si partì, dieci più io, chi era di quelle parti ci indicava la strada ma non si faceva vedere perché poteva essere riconosciuto. S’andò di là dall’Aurelia, c’erano stati dei combattimenti, si doveva stabilire come erano andate le cose e se c’erano stati dei morti. Ci accompagnarono sul posto altri partigiani, a circa 10 km. da La Spezia. Non era successo niente, non era morto nessuno.
Tra andare e tornare non era una cosa facile: a piedi un giorno per andare e uno per tornare, si arrivò a sera dopo cena.

Dovetti andare subito dal capitano a riferire. In ufficio non c’era più, dormiva in quella casa che ho detto. Mi aveva detto: “Quando torni, se è prima di mezzanotte vieni a casa Malachina; se è dopo mezzanotte, vieni la mattina dopo in ufficio”.
Arrivai prima di mezzanotte. Andai a suonare il campanello per riferire che non era successo niente. Nella casa c’era moglie, marito e una figlia vedova con un bambino piccino: si doveva avere un certo riguardo ad entrare, con le buone maniere, lasciare le armi, ecc., per non allarmarli.
Il capitano alla fine mi disse: “Domani festa. Poi ti comanderò di nuovo quello che c’è da fare”.
Dove si dormiva ritrovai l’amico che era andato a riparare le scarpe. Anche lui volle sapere cosa era successo, perché la notte ero rimasto fuori.
“Tu sapessi quanto si è camminato!”, gli dissi.
Il giorno dopo feci festa; Angiolino no perché doveva riparare le scarpe.
Di fronte all’ufficio del capitano c’era una famiglia: due ragazze, un bimbo piccino e malaticcio e la mamma vedova. Quel giorno feci amicizia, poi tornai nel posto dove si mangiava. In seguito frequentai quella famiglia sempre di più, a cena andavo da loro e disertai la mensa.
Al campo c’erano due addetti alla cucina, alle caldaie e la mensa sotto una tettoia. Si è sempre mangiato, la roba si trovava; il pasto consisteva in un piatto di minestra, un po’ di lesso, pane e un bicchier di vino. A Montelama la fame non si è mai patita forse perché c’era la compagnia comando.

Durante il giorno al campo non rimaneva quasi nessuno: ognuno aveva le sue cose da fare.  Il giorno dopo mi ripresentai e il capitano mi dette un altro incarico, non dalla parte del mare, ma dalla parte dell’Emilia, per ritirare della roba, agnelli, generi alimentari: s’andava leggeri e si tornava carichi.
Avevo l’incarico di consegnare una busta, la ricevuta. In seguito mi avrebbe dato anche soldi, ma per ora mi dava delle ricevute; la roba ci veniva consegnata e sarebbe stata pagata grazie a quel pezzo di carta.
Un’altra volta si dovette tornare a La Spezia per ritirare delle sigarette. Si partì la notte e si arrivò la mattina presto. Ormai la vita l’avevo già quasi messa disponibile. Pensavo: “Qui non si cava, una volta o l’altra ci rimango”.  Si doveva andare alla periferia di La Spezia. Gli uomini si misero intorno, nascosti. Suonai il campanello e mi ritirai da parte con l’arma pronta. Naturalmente le cose erano state combinate in precedenza, perché in ogni città o paese c’era il CLN che ci organizzava la vita. Ci fu aperto ed erano già pronti due sacchi da carbone di sigarette.
Le sigarette al comando venivano distribuite tra tutti, tante per tanti giorni e ciascuno se le doveva far bastare.
Quando il capitano cominciò a darmi in mano i soldi, avevo l’incarico di portarli anche alla sua mamma, sola e vedova [8], che stava un po’ fuori di La Spezia, in un piccolo borgo [9] . Mettevo al riparo gli uomini e dalla mamma arrivavo da solo salendo le scale. Dopo la prima volta in cui fu riservata, la donna riprese animo e mi accoglieva come se arrivasse il Papa. Gli portavo la busta coi soldi e la lettera del figliolo che tenevo custodita in seno. Le volte successive voleva che entrassi in casa e offrirmi qualcosa ma io non volevo accettare, se non una volta, perché il posto era rischioso e gli altri mi aspettavano e mi preoccupavo per loro: il compito del capo non è facile, proprio perché non deve pensare solo per sé.
A Montelama c’erano anche due nipoti di Ermanno, figli di una sorella. Avevano tanta voglia di fare e tanto entusiasmo ma erano giovanissimi e Ermanno li teneva d’occhio e al riparo. Un paio di volte li mandò anche con me raccomandandosi di tenerli d’occhio e facendogli la paternale prima di partire.

Mi ricordo che a Montelama si ebbe anche la visita di un commissario politico comunista. Arrivò la sera dicendo ad Ermanno cosa era venuto a fare: parlare agli uomini di politica, fare un comizio. Ermanno rispose: “Domani se ne parla”. Il commissario arrivò da solo, ma naturalmente qualcuno gli aveva detto dove andare e indicato il posto dove s’era noi.  Intanto chiamò me, che andassi all’ufficio: era dopo cena. Ermanno tutto era fuorché “politico”: era in Giustizia e Libertà e basta. Lì c’era un gruppo combattente, la politica era un’altra cosa.
Il commissario era un uomo piuttosto anziano, armato di una grossa pistola.
Ermanno mi chiamò per dirmi di ripresentarmi l’indomani mattina.  Nel frattempo Ermanno doveva aver avvisato anche qualche altro di noi.
L’indomani davanti al commissario precedentemente disarmato e perquisito, Ermanno disse: “Qui s’ha bisogno di tutto, ma di politica non se n’ha bisogno. Prima cosa io di politica non ne voglio sapere niente, quindi qui non c’è niente da fare, anzi ti rispedisco di dove sei venuto”.
Il commissario era di tutti i colori.
Bisogna considerare che a Montelama Ermanno doveva accogliere tutti, quindi non sarebbe stato opportuno un discorso politico schierato.
A me disse: “Te accompagni questo uomo alla Foce [10], se dovesse opporre resistenza gli spari”. S’immagini come rimase quest’uomo! Se non se la fece addosso poco mancò: trovarsi disarmato e con queste parole. Io penso che il comandante lo volesse impaurire.
Si fece un boccone di colazione e si partì, io e quest’uomo. La pistola la tenevo in tasca. Lui camminava davanti a me, io dietro, con il mitra a tracolla e la sua pistola in tasca. Lui non fece storie, non parlò quasi.  Alla Foce si arrivò la sera tardi. Gli ridetti la pistola, scarica, e arrivederci. Lui prese in giù, a piedi, verso la città.
Camminai fino a tardi. Al campo arrivai il giorno dopo.
Bisogna dire che lungo la strada per arrivare a Montelama c’era un conte che lì aveva una residenza, il podere, la fattoria e le persone che ci lavoravano.  Ermanno mi aveva detto: “Quando torni, se fai tardi, fermati dal conte di Veppo e digli che ti ci ho mandato io”.
Quella sera il conte non c’era, ma le persone mi accolsero. Mi fermai a cena e dormii lì perché mi diedero una stanza.
Naturalmente quando arrivai a Montelama mi presentai in ufficio. Ermanno volle sapere: “Ti ha fatto osservazioni quell’uomo? Ti sei fermato dove ti ho detto io?”. “E’ andato tutto bene. Penso che abbia avuto una bella paura. Comunque gli ho ridato la sua pistola, è partito e io sono ripartito in senso inverso: questo è tutto”.

C’era, vicino a Montelama, una famiglia con due ragazze sordomute che vivevano insieme al babbo e alla mamma, a circa 5-6 km.  La prima volta che andai da questa famiglia fu in occasione del fatto che Ermanno mi aveva informato che sembrava che ci fosse qualcuno che abusava delle donne, che se ne approfittava.  Mi disse: “Stasera fate un giro a informarvi se qualcuno ha qualche difficoltà”. Non si sapeva con precisione se era un partigiano o un civile.
Quindi si partì, io e Angiolino, per fare questo giro da tre o quattro famiglie, di sera; il giro si terminò la mattina.  Quando mi presentai a questa famiglia era già buio; s’affacciò il babbo. Gli dissi: “Sono venuto perché risulterebbe che qualcuno ha dato noia alle ragazze”. L’uomo mi prese in disparte: “No, qui da noi no, ma l’ho sentito dire anch’io”. A quel punto il mio compito l’avevo svolto in quella famiglia.
S’entrò in cucina e vidi queste due ragazze, due belle ragazze, ma sordomute. La mamma ci offrì da bere. Noi si tolse il caricatore dalle armi e si misero scariche in un angolo. A dire che sembravano matte è dire poco; sembrava che avessero visto gli uomini per la prima volta; noi avevamo avuto le divise da poco quindi facevamo la nostra figura e eravamo armati per giunta. Io non le capivo. Solo la mamma le capiva bene e tutto a segni e faceva da tramite con noi. “Non ci fate caso, loro non vi hanno mai visto”. Allora le ragazze cominciarono a toccare il fucile, a rigirarlo da tutte le parti. Non mi era mai capitato una cosa del genere.

Mi ricordo che una volta [11]  – quindi doveva essere febbraio – sono andato anche al Carnevale a Torpiana, un paese vicino. Un maresciallo che s’era dato alla macchia comandava una squadra e ci invitò, io e Ermanno. Mi toccò fare un po’ di guardia quella notte.
L’indomani strada facendo – ci voleva più di due ore per tornare a Montelama – Ermanno mi fece la morale. Ormai era parecchio che andavo a mangiare da quelle donne perciò mi disse: “Te però con queste donne, eh!”, cominciò il discorso così.
Io da quando ero lì avevo visto che qualche altro aveva intorno una donna. Pensavo quindi che se lo faceva un altro lo potevo fare anch’io. Questo altro, di cui non ricordo il nome di battaglia, aveva portato in un paese vicino a Montelama la moglie, ma io non sapevo che fosse la moglie, vedevo questa donne venire a Montelama da lui. Quindi ribattei a tono che c’era anche un altro oltre me che aveva intorno le donne. Ma lui mi disse: “Eh! Ma quella è la su’ moglie!”. Porca miseria, ci rimasi!
Quindi il discorso finì lì. Ermanno mi disse: “Allora stai attento sai!”.  Comunque lui non mi ha mai proibito nulla.

Il comandante voleva sapere anche se avevo difficoltà con quelli che mi accompagnavano. E’ vero avevo avuto un giudizio di “Scarsa propensione al comando”, ma a quel tempo avevo imparato.  L’amicizia con le ragazze si era consolidata [12]. Un giorno che ero di riposo, mi invitarono a mangiare da loro.  Il capitano nel frattempo mi aveva dato la chiave del magazzino [13] : dentro c’erano i viveri e una bestia attaccata al gancio, oltre all’olio, al vino e alla farina. Quindi quel giorno staccai un po’ di carne dalla bestia e la portai alle ragazze.  La faccenda delle chiavi mi metteva in una posizione di vantaggio, perché se anche qualcuno avesse avuto qualche idea particolare nei miei riguardi, o l’idea di portare via qualcosa, l’avrebbe abbandonata riconoscendo la mia autorità.  La mamma delle ragazze cucinò subito una bella zuppiera di pastasciutta. Non dico che a una di quelle non abbia dato qualche bacio ma con le ragazze non successe mai nulla, posso giurarlo sulla croce. La casa delle ragazze aveva due camere, un andito e una cucina; sotto al piano terreno c’era un’altra stanza come magazzino.
Presi questa abitudine: non andavo più a mangiare alla mensa, ma andavo da loro.
Passata l’estate nell’essiccatoio, quando venne l’inverno ci s’era già accasati. Io e Angiolino si passò in una casa, babbo, mamma e una ragazza, che disponeva di una camera libera.  Lì a Montelama non poteva arrivare nessun nemico perché da tutte le parti, specialmente da Pontremoli, le strade erano tutte bloccate, i ponti crollati: solo a piedi si arrivava. A Pontremoli si poteva contare su delle persone che ci avrebbero avvisato e da parte nostra c’erano le sentinelle di notte. In caso di pericolo si sarebbero sparati dei bengala.  Mi ricordo che un giorno comparve una donna, mamma di un ragazzo giovane che era da noi.  “Il mio bimbo non può stare qui”. Era venuta per portarlo via.
Ma da lì non si usciva, non si tornava a casa. Credo che li portassero via tutti e due e che li uccidessero.
Questo fatto può sembrare gravissimo ma era così. Non c’era niente da fare: era la vita. Il campo comando aveva del bene e del male. Se tornando a casa quella donna fosse stata presa dai fascisti l’avrebbero torturata e fatto dire quello che volevano. Si sarebbe messo a repentaglio tutta l’organizzazione [14].
S’aveva anche noi delle donne-staffette. Mi ricordo in particolare una a cui i fascisti avevano ammazzato il marito; questa se l’era legata per bene al dito e si era resa disponibile per andare dappertutto e fare di tutto, col cavallo e abbigliata a seconda della missione e armata di tutto punto.
In altre zone, diverse dalla nostra, c’erano anche Brigate rosse ma non ci si dava noia; capitava di incontrarci ogni tanto per caso, ma ognuno aveva la sua operazione da compiere. Noi s’aveva come zona d’operazione quasi sempre l’Aurelia, era una zona di nostra competenza, altre brigate ne avranno avute altre.

Mi ricordo che una volta si doveva andare a prendere del materiale verso l’Aurelia, io e la mia squadra, non mi ricordo con precisione cosa; s’era in una strada laterale dell’Aurelia, verso il mare. Tra di noi c’era sempre qualcuno che conosceva le strade meglio di me. Ad un certo punto si vede venire incontro un barroccio tirato da due muli e portato da due tedeschi.  “E ora cosa si fa?”, pensai. Ci si mise da parte. Erano due tedeschi anziani che erano andati a fare la spesa per la compagnia. Non ci avevano visti. Quando arrivarono presso di noi si uscì fuori e si puntò le armi. Alzarono subito le mani. Si disarmarono. I due anziani tedeschi dovevano essere in Italia da qualche tempo perché “spiccicavano” un po’ di italiano: “Guerra finita! Guerra finita!”, solo queste due parole. Da una parte c’era da ridere.
Che si fece? Si girò il carro, si presero i viveri, carne, farina, pane e quei due vennero con noi. Io pensavo: “Che se ne fa di questi?”. Loro sembravano tranquilli con quel “Guerra finita”. Non me la sentii d’ammazzarli: “Che fo? L’ammazzo? e quando li ho ammazzati che ho fatto? E poi chi ci aiuta a portare su la roba?” Si riattraversò l’Aurelia nel punto opportuno e si prese uno stradello: il carro non ci passava più. Si buttò in un fosso, si riempirono i corbelli di viveri, si caricarono sui muli e si tornò al campo. I due tedeschi sono rimasti con noi fino alla fine della guerra. A guerra finita gli fu rilasciato un documento per poter tornare in Germania in cui si dichiarava che erano stati al campo e che erano amici nostri.
Quando coi muli si andava per rifornimenti ci seguivano, disarmati, e ci aiutavano. Avevano smesso le divise, non si riconosceva più che erano tedeschi e avevano imparato sempre meglio l’italiano.

Doveva essere settembre o ottobre del ‘44. Ci mandarono sull’Aurelia, a Padivarma [15], a prendere dei viveri. Avevo la mia squadra e i due muli con i due tedeschi per portare via la roba, era di notte, verso mezzanotte.  Fuori dal paese c’era un negozio. Si vede che il CLN ci aveva organizzato la consegna, ma qualcosa andò storto perché si trovò i tedeschi ad aspettarci.
S’era dietro a caricare la roba, forme di formaggio, ecc. e dirò che qualcuno si è salvato perché aveva lo zaino pieno di roba. A un certo punto si alzano in cielo due bengala che ci illuminano, da un’altra parte si comincia a sparare verso di noi.
Nella circostanza morirono sul posto due dei miei [16]. A me passò un colpo di proiettile sotto il mento che mi ha lasciato il segno.
Fu un disastro. Si scappò alla meglio. I due tedeschi avevano nel frattempo preso i muli ed erano tornati indietro, verso Montelama.
Io mi sentivo il sangue sulla camicia e sui caricatori nella cartucciera di cuoio.
Riuscii a raggruppare la squadra e ritornare da un’altra parte. Quando arrivai Ermanno aveva saputo già com’era andata.
Il nome di questi due morti li ho scritti su una campana di una chiesa sconsacrata situata in un punto importante e da cui si vedeva tutta l’Aurelia da lontano: i partigiani ci andavano diverse volte, anche a dormire.  Due anni fa sono tornato sul posto: la chiesa è chiusa e la scala per il campanile non c’è più.  Il primo dell’anno del ’45 gli si dette la risposta [17].
La squadra al completo, più qualcun altro andò da Montelama al paese dove era successo il fatto. Un poco più avanti sulla strada c’era la caserma dei fascisti e dei tedeschi dietro cui si alzava la montagna e lì ci si preparò. Si prepararono le armi, mitragliatrici, bombe. Intanto loro nella caserma festeggiavano l’ultimo dell’anno, c’erano anche delle donne ospiti. Le finestre della caserma non solo erano oscurate ma anche inchiodate con delle assi.
A mezzanotte precisa si scatenò l’inferno. Nella sala adibita a sala da ballo si ballava. Sotto, all’ingresso sulla strada c’era la sentinella. Naturalmente quella fu la prima ad essere colpita e poi cominciarono a volare le bombe a mano perché si era proprio sopra di loro, e a mitragliare le finestre che andavano in pezzi.  Non so con precisione quanti siano stati i morti e i feriti, ma credo parecchi. Dopo l’attacco non circolava più nessuno nella caserma. Il tutto durò pochissimo, una mezz’ora.  Non so se si sia salvato qualcuno, perché quelli che erano dentro non avevano scampo e quelli che uscivano pure.  Con quello gli s’era data la risposta per ciò che avevano fatto a noi.

Una volta mi ricordo s’era sull’Aurelia, in un paese, s’era fatto cena. Con noi c’era un siciliano un po’ gradasso. Ad un certo punto abbandona tutti e se ne va per conto suo giù per la strada principale senza avvertire. Noi si teneva sempre le sentinelle di fuori. Quando il siciliano tornò indietro, così senza precauzioni e senza fermarsi, le sentinelle gli spararono. Se non morì ci mancò poco. Il proiettile gli passò da parte a parte. Ci toccò portarlo all’ospedale: non morì.

Siamo nel dicembre del 1944, verso l’ultima settimana del mese. L’evento di cui parlo è che gli americani avevano cominciato a prenderci in considerazione e cominciarono a mandarci roba, armi e vari materiali necessari, cosa che prima non era mai stata fatta da noi. Il nostro capo, Ermanno, era stato avvisato dal CLN di La Spezia. Gli americani decisero di lanciare. La zona era assai adatta. Montelama era il paese e stava in collina, ma c’era una vasta valle in basso, tutta chiusa ai lati dai monti, che raccoglieva diversi paesi. Il luogo rendeva sicuri i lanci. Fino a quel momento s’aveva roba scarsa e da poco. Ermanno mi chiamò subito perché si dovevano preparare dei segnali su questa pianura. Il terreno era coperto di neve, anche se bassa. I segnali dovevano essere grandi, rossi e ben visibili in mezzo alla valle: i lanci avvenivano di giorno. Cosa fecero gli americani? Verso le 10 arrivarono 4 o 5 caccia e poi due grandi apparecchi da trasporto. I caccia gli stavano sopra a proteggerli. Era una bella mattinata, fredda ma bella.

Gli aerei da trasporto si abbassarono, prima uno poi l’altro. Noi stavamo a guardare la scena perché poi la roba andava presa e portata via. L’aereo che doveva lanciare aprì un grande portellone e cominciò a venire giù di tutto: armi (tra le armi c’erano anche dei cannoncini), munizioni, vestiario, scarpe, coperte, perfino le sigarette, le caramelle e i profilattici: avevano pensato a tutto. Una volta lanciato passava oltre, girava e tornava indietro a rilanciare ancora. I paracaduti erano grandissimi di colore rosso [18]. Credevo che ce ne fosse solo uno, invece dopo un po’ ne arriva un altro e anche quello comincia a lanciare un’altra partita di roba. Quel giorno finì lì.
Si cominciò a organizzarsi. Vennero altre brigate a ritirare il materiale ma parecchia della roba era nostra. Tra noi c’era anche una persona anziana che si conosceva bene perché ci aveva dato la camera per dormire. Si doveva raccattare tutto e portare via, in salita e nella neve. Ci volle tutto il giorno, e meno male che ci aiutarono. Si raccolse il materiale in dei grandi magazzini. Il materiale era tutto insaccato in grandi sacchi ben chiusi. L’uomo che ci aveva aiutato rimediò subito le scarpe, del resto aveva lavorato e se le meritava.
Il campo di lancio serviva anche per le esercitazioni e per provare le armi nuove degli americani.
Bisogna dire che il pensiero degli americani non era sfamarci ma farci arrivare le armi e altro materiale ma non tanto i viveri.
Di roba ne avevano buttata tanta perché dei soldati doveva venire a Montelama, difatti il giorno dopo, arrivò una compagnia di inglesi: il capitano si chiamava Gordon Lett. Era una compagnia di 50 soldati australiani guastatori.  Credevo che bastasse e invece non bastò. Lo stesso giorno lanciarono altri soldati guastatori sempre al comando di Lett. Avevano stanza sotto di noi in un altro paesetto, a Rossano.
La sera il capitano venne dal nostro comandante. Ermanno chiamò anche me perché mi voleva bene e si fidava anche per le cose della sua famiglia.
Il capitano parlava italiano bene come noi. La presenza dei guastatori non era opportuna per quella zona, ma per i luoghi dove sarebbero stati più frequenti gli scontri con i tedeschi e i fascisti, presso i ponti e in genere sull’Aurelia, perché allora c’era solo quella via di transito tra nord e sud e i rifornimenti tedeschi per il fronte passavano di lì. Si parlò dunque di questo. Io ascoltavo.

Da lì cominciò per noi una vita diversa pur continuando con la nostra attività, poiché li dovevamo accompagnare laddove dovevano andare ad operare perché non conoscevano il territorio. La distanza era di circa 100 km da dove eravamo. L’operazione era di nostra competenza. Toccò soprattutto a me. Ermanno come comandante rimaneva in sede, partecipava alle azioni più importanti.  Si cominciò subito a perlustrare i luoghi che erano tanti e distribuiti in un lungo tratto dell’Aurelia, a valutare come regolarsi, ecc. Ci vollero due giorni.
Naturalmente c’erano altre formazioni partigiane che facevano capo al comando ma sparse sul territorio montano che dovevano occuparsi di questo.
Il terzo giorno li accompagnai per la prima operazione. Bisogna dire che quei soldati la dinamite la mangiavano anche col pane. Gordon Lett era sempre con noi. Nacque anche un’amicizia tra noi due [19].
Il primo obiettivo fu individuato tra due ponti importanti, tratto che avrebbe dovuto essere bloccato. Successivamente doveva intervenire l’aviazione americana per bombardare i convogli che si sarebbero arrestati in quei punti.
Erano bravi ma ci volle tempo a sistemare l’esplosivo e tutti i fili, il detonatore, ecc.: ci volle tutto un giorno. La sera si dovette dormire laggiù. In quella zona c’erano dei partigiani che stanziavano sulla sinistra verso il mare, che ci trovarono il posto da dormire.
Di notte i tedeschi per le strade non andavano, sarebbe stato rischioso. La mattina dopo era tutto pronto: c’era solo da “schiacciare il bottone”. Abbastanza presto si tornò sul posto. Intanto si cominciava a veder passare dei camion carichi di armi che si dirigevano a sud verso il fronte. Ad un certo punto in due soli, noi si stava al riparo, fecero saltare i ponti mentre passavano dei camion.  Io onestamente non avevo paura; dopo il periodo che avevo passato in Germania tutto quello mi faceva il solletico, ma tuttavia se mi fosse toccato sarei morto come chiunque altro.

La strada saltò per aria e l’Aurelia si bloccò. Chi arrivava lì si doveva fermare: erano in trappola. Arrivò una formazione di apparecchi americani e fece un macello e a dire macello è dire poco.  Si dormì lì anche quella notte e il giorno dopo si tornò al campo. L’operazione era finita.
La compagnia di guastatori doveva occuparsi anche della parte est dell’Italia, non solo dell’Aurelia e si spostava di qua e di là, ma tornavano sempre lassù da noi. In seguito si spostarono anche sull’Adriatico.
Anche nella seconda operazione toccò a me accompagnarli. Ci si indirizzò verso una strada che era sulla costa, la litoranea, attraversata da diversi torrenti o fiumiciattoli che vanno al mare, più a nord del Magra. Anche lì furono bloccati un paio di ponti, li fecero saltare e venimmo via.
Mi rimisi a disposizione del comandante.
Un’altra volta mi mandarono sempre di là dall’Aurelia, verso il mare a fare rifornimento di farina: ero solo. Quella volta il comandante mi aveva dato dei soldi. In uno dei paesi che ci sono là c’era un mulino che macinava. Anche là c’erano partigiani che avevano preparato un posto per mettere la roba, un magazzino vicino alla strada e alla periferia del paese. Mi presentai quindi a loro come incaricato. Ogni giorno, di sera, i partigiani portavano farina per noi che raccoglievano, si vede, da diversi mulini e l’accumulavano nel magazzino. Ci dovetti stare una settimana per avere la quantità, dormivo nel magazzino, la porta e le finestre si bloccavano di dentro e non avevo portato l’ombrello ma un’altra cosa! Di giorno mi facevo vedere poco, andavo al mulino perché sapevo che lì erano amici nostri, feci amicizia, si parlò di tante cose, mi chiesero come ero finito lì.
Alla fine c’erano sacchi pieni per 3 ql. di farina. I sacchi vuoti li avevo portati io: erano quelli che avevano usato gli americani negli avio-lanci, sacchi che erano una meraviglia.
Quando la farina fu pronta scesero i due tedeschi a prenderla coi muli.
Allora avevo i capelli lunghi, la barba a farla alla meglio mi arrangiavo. Durante quella permanenza, uno del mulino, che faceva da capo, mi disse: “O perché non vai a farti i capelli?”, (Nel paesino c’era un barbiere). “Vieni un po’ con me”, mi disse. Mi portò dal barbiere: “Vai tranquillo”, mi disse. “Ci penso io [voleva dire che pagava lui]”, disse rivolto al barbiere. La sera mi chiese com’era andata e ribadì: “Non ti preoccupare, ci penso io”.
In seguito Ermanno mi mandò, sempre dalla parte del mare, a portare un sacco da carbone pieno di noci [20] e riportare indietro della farina.

Quella volta ero con la squadra e i muli. Sulla strada del ritorno capitò un inconveniente. Passato un fiume si camminava sulla strada, incontro a noi viene un uomo. “Chi è il capo?”, domanda. “Il capo sono io”. “Vedi lassù?”, fa lui “Lassù c’è un fascista, un capo. Vedi, vedi quella casa?”. Era una casa di campagna. “E ora?”, pensai io. Come facevo a dirgli di no? Scherziamo davvero? O quel fascista aveva fatto del male o c’era qualcosa tra famiglie: che ne sapevo io? Per venire a dirmelo qualcosa c’era. Fermai i due tedeschi con la farina: non sarebbero scappati, erano fedelissimi.
Saliamo su alla casa, era mattina molto presto ma ci si vedeva. Osserviamo la casa. L’uomo mi aveva detto dove dormiva il fascista: sapeva tutto di lui. Chissà cosa c’era tra di loro? Come facevo io a chiederglielo?
Si circondò la casa. Il fascista era sempre a letto; in casa c’era la fidanzata incinta ma era levata. Dalla finestra socchiusa a pianterreno lo si vedeva, il mitra era attaccato in fondo al letto. Che feci? Diedi un colpo alla finestra pronto a sparare se fosse stato necessario. Fu un bel risveglio il suo! Quando fu in condizione di sapere cosa era successo io avevo saltato la finestra e ero già lì davanti a lui. Dalla porta si affacciò un altro partigiano. Venivano le voci di disperazione della donna da un’altra stanza. La donna era insieme alla mamma.
Io avevo due soluzioni: Una. Di portarlo a Montelama, al comando. Due. Di ammazzarlo subito. Come si fa ad ammazzare uno di fronte alla famiglia? Io non me la sentii.
Lo portai a Montelama, pur sapendo che a casa non sarebbe più tornato. Gli legammo le mani di dietro, se scappava sarebbe morto subito. Era un sottufficiale arruolato. Si scese dove s’erano lasciati i muli e si riprese la strada. Chissà cosa avrà pensato il fascista a vedere due tedeschi nella squadra. S’arrivò la sera tardi, dopo l’ora di cena. Andai da Ermanno a dire cosa era successo. “Domani si vedrà”, disse il comandante. L’uomo fu messo in una stanza, finestre e porta chiuse: non poteva fare altro che dormire. Il comandante disse: “Lo potevi ammazzare per strada”, ma lui lo sapeva com’ero io.
Non a tutte le persone puoi dire: “Vai e ammazza”. Quelli che andavano a fare certe cose, quelle operazioni avevano certi corbelli!
La roba era stata scaricata ed era arrivata sana e salva. Da un lato mi ero fatto onore e dall’altro avevo portato anche qualche rogna.

Il giorno dopo lo interrogarono e la sera insieme a due partigiani fu portato sulla montagna in un posto adatto, lo giustiziarono e lo sotterrarono [21]. Io non lo vidi più. Questo capitolo fu chiuso. Il 20 gennaio del ’45 si subì un rastrellamento [22]. (Io non ho partecipato al rastrellamento dell’agosto del ’44) [23].  I tedeschi e i fascisti avevano messo insieme due compagnie e approfittarono dell’inverno per accerchiare tutta la zona, una vasta zona, per farci smammare. Che fossimo in quella zona lo sapevano, aspettarono solo il momento per essere in grado di portare avanti l’azione. Tutte le nostre brigate potevano contare su 300 uomini.  Dapprima li si affrontò in basso, poi via via ci si ritirava e loro venivano avanti spingendoci sulle alture dei monti. Intanto c’era qualcuno che moriva, qualcun altro coi piedi gelati, perché c’era la neve, faceva freddo: c’erano quindi delle perdite.
Ci si sparava addosso con tutto quello che s’aveva, mitragliatrici, cannoncini; dopo una settimana di battaglia s’arrivò al punto di chiudere: loro venivano sempre più avanti e noi sempre più indietro e sempre meno. Alla fine, di sera, mi trovai con la mia squadra in cima al monte Picchiara. Se si rimaneva lì la mattina dopo ci avrebbero preso. Si decise di disperderci, di scappare. Si sotterrò sotto la neve le armi pesanti – s’aveva una mitragliatrice bellissima.
Io e Angiolino si tornò a Montelama, dove nel frattempo erano arrivati i tedeschi. Ma il popolo era sempre stato con noi e il popolo conta.
Io ero con Angiolino, dicevo, perché lui era rimasto sempre con me, non era più tempo per lui di fare le scarpe.
Si scese di notte: le strade si conoscevano come le nostre tasche. S’arrivò al paese, si passò sotto, accerchiandolo dal basso sulla destra lungo il fosso, si venne fuori in fondo al paese dove c’era il Dopolavoro e dove si sapeva che ci sarebbero state delle persone che ci potevano aiutare. Gli altri della mia squadra erano andati a rifugiarsi da altre parti.

Ci si presentò in questo Dopolavoro, tedeschi lì non ce n’era, c’erano tre o quattro persone anziane. Ci dettero da mangiare, vollero sapere come era andata e quante perdite s’aveva avuto: “S’è avuto perdite ma noi siamo ancora vivi”.  La possibilità che i tedeschi venissero lì era scarsa perché di notte non si spingevano fuori, non si fidavano neanche della gente e poi sarebbero dovuti essere in tanti.
“Ora vi s’accompagna noi”, dissero quegli anziani “Laggiù c’è una grotta, vi s‘è preparata”.
Sarà stato mezzanotte quando uno degli anziani ci accompagnò tutti e due alla grotta. C’era la neve alta e si camminò per 200 mt, giù in discesa. Naturalmente si lasciavano tracce nella neve. S’arrivò a una caverna, davanti all’ingresso una grossa pianta di scopa ostruiva l’ingresso, un ingresso stretto che dava in una caverna ampia e asciutta. Dentro c’era un sacco di farina di castagne e spazio per dormire.
Stanchi come s’era ci si addormentò.
Se non ci fosse stato il Padreterno ci sarebbero rimaste le tracce di tre persone nella neve, invece … La mattina ci si svegliò presto, anche per la paura, s’era solo due dopotutto. M’affaccio da questo “scopone” che ostruiva l’ingresso e vedo che la neve che era venuta di notte aveva coperto tutto, anche le nostre tracce. C’era una nevicata che non faceva vedere più niente!
“Angiolino, forse per ora ce la siamo cavata”, dico al mio compagno.
Da quel posto si scorgeva la parte di sotto dove passava la strada. Durante il giorno si sentì sparare proprio da quella parte. Passa un giorno. Si mangiava la farina e si beveva la neve. Passa il secondo giorno. Mi affacciai e vidi su, da dove s’era venuti, una sentinella tedesca.
S’arriva al terzo giorno. Gli spari erano cessati del tutto. Non ci si fidava tanto e si stette ancora un giorno. Il quarto giorno si pensava già di sortire fuori. A un certo punto, verso l’una, si sente camminare. Erano arrivate le due ragazze amiche mie con un tegame di zuppa di verdura e fagioli.
“Siete sempre vivi?”, “Eh! Sì siamo sempre vivi. C’è qualcuno su?”, “No, non c’è più nessuno”.
A quella notizia si riprese un po’ di coraggio e con le nostre armi si tornò su. A Montelama in quel momento ci s’era solo noi due. Gli altri partigiani che si erano allontanati sarebbero rientrati dopo. Ormai s’era salvi e da quelle donne si fece anche cena. I tedeschi non avevano trovato il magazzino e io avevo ancora le chiavi. Ritornai padrone un’altra volta. I tedeschi erano arrivati e partiti e niente avevano fatto alla popolazione di vecchi e di donne.
Nel magazzino la carne non c’era ma c’era tutto il resto: olio, vino, vestiario; perché nel frattempo gli americani avevano cominciato da Natale del 1944 coi lanci aerei del materiale. Ormai s’era tutti ben vestiti e calzati, se no forse non si superava l’inverno.

Piano piano al paese tornarono tutti, anche il comandante.
Si provvide a seppellire i tre o quattro morti al cimitero; uno di questi era caduto nello scontro sulla strada che si vedeva dalla caverna. Tutto sommato non c’erano state grandi perdite. Si tornò anche a riprendere la mitragliatrice.
Dopo questo attacco nemico siamo sempre passati al contrattacco, specialmente sull’Aurelia. Una settimana prima che finisse la guerra in uno scontro a fuoco morì il capitano con altri due [24]. Quella volta sull’Aurelia c’ero anch’io ma ero in un’altra zona. La vittoria fu comunque nostra perché tutte le autoblindo dei tedeschi saltarono in aria. Accadde una settimana prima della fine della guerra, prima di scendere a La Spezia per l’occupazione.
In quella occasione – si era a pochi giorni dalla liberazione di La Spezia del 23 aprile 1945 – io ero appostato con altri partigiani da un’altra parte a nord, circa 5 km. di distanza da dove era Ermanno. Io non potevo vedere nulla, ma sentii sparare tanto. Quello che era successo lo seppi dopo. Avevo avuto l’incarico di tenere una strada traversa che dall’Aurelia veniva nella direzione dei monti, verso il nostro campo. Bloccai la strada con dei tronchi, mi appostai lì con la squadra e feci quello che mi era stato detto. Dopo un po’ cominciarono gli spari e durò parecchio fino a dopo l’ora di pranzo.
Il comandante con altre squadre era andato più a sud; i ponti erano saltati e i rifornimenti dei tedeschi passavano con difficoltà.

Nel tardo pomeriggio tutto finì. Capitò gente che veniva di là, dall’Aurelia: “Guarda è successo questo e quello. Ci sono tre morti. E’ morto anche il apitano”. Lo avrebbero portato, con gli altri due sottufficiali, lungo la strada che si faceva per tornare al campo.
Era successo un macello. I tedeschi che andavano a sud erano nelle autoblindo: ci fu uno scontro serio. Nonostante tutto, nonostante il prezzo alto, fu una vittoria: le autoblindo tutte distrutte.
Informato di questo mi mossi di lì. Che ci stavo a fare ormai? Andai sulla strada dove avevano portato i morti. Ci rimasi male. Così finì la sua carriera. Non potevo più andare dalla sua mamma a portargli la roba.  Oggi, tra la strada e il fiume c’è il monumento che ricorda i tre caduti in battaglia.  Tornai a Montelama, Ermanno non c’era più. Mandarono un giovane sottufficiale, un tenentino, a sostituirlo, poveretto, sapeva poco, mi si raccomandò. Si stette diversi giorni poi venne l’ordine di scendere a La Spezia perché si cominciava a prevedere che sarebbe finita presto. Si dovette smontare tutto, portare via tutto, sgomberare il campo. Si scese verso la città.  Ci si stabilì sopra La Spezia, sulla collina più bassa. I tedeschi si ritiravano e noi lì a riceverli.
Il nuovo sottotenente, inesperto, poverino, non sapeva che pesci pigliare; mi fa: “Sai, devi tornare a Montelama, s’è lasciato della roba nell’ufficio. Bisogna che vai te, hai le chiavi. Devi entrare nell’ufficio e prendere tutto quello che c’è”. A dirlo è una parola, ma a farlo …
Andai da solo. Partii presto la mattina dopo, era ancora buio, ma le strade le sapevo bene. Arrivai a Montelama che era andato sotto il sole. Che feci? Andai da quelle donne. Non c’era più niente del campo e da qualche parte dovevo dormire.  Quando mi videro arrivare rimasero di sasso e fu festa grande. La mamma si mise subito a fare la minestra. Devo dire la verità: gli avevo fatto del bene. Avevo dato sempre la carne per quel bambino malaticcio (che in seguito è morto). Da parte loro avevano le galline e un piccolo podere, ma parecchia roba gliel’avevo fatta avere io. Quando ero di festa andavo al fiume a prendere i pesci con la bomba e gliene portavo una cassetta.
Il capitano sapeva tutto ma si guardava bene dal dirmi qualcosa.
Nel magazzino a pianterreno mi fecero il letto, ma quasi quasi non l’adoprai per niente perché si stette tutta la notte a chiacchierare.
La mattina dopo andai in ufficio [25],  presi tutto quello che c’era, salutai le ragazze e la mamma. Arrivai la notte sulla collina di fronte alla città. Il giorno prima già avevano combattuto perché i tedeschi arretravano ma volevano passare e quindi un macello, c’era stato anche qualche morto tra di noi. Quando arrivai continuava la sparatoria. I tedeschi che passavano andavano verso il nord, quelli che non passavano morivano.
Da sud si entrò in città, dalla strada principale [26]. La città era massacrata dalle bombe americane.
I CLN avevano combinato con gli alleati che le prime truppe ad entrare in città fossero le nostre e poi sarebbero seguite le loro. La strada a fianco del mare era piena di macerie; noi a piedi, gli americani che vennero dopo avevano le ruspe che spazzavano le macerie dalle parti e liberavano la strada. C’erano ancora i cecchini, gli ultimi fascisti che si erano appostati in alto sui tetti per spararci.

Ma tra i miei della squadra e anche altri appartenenti ad altre compagnie c’era chi conosceva bene la città; giravano attorno agli edifici e li prendevano alle spalle. Ci vuole coraggio. Verso mezzogiorno s’era in cima alla città. S’entrò dentro il palazzo del Comune e della Provincia a prendere posizione. A un certo punto arriva un ragazzo di La Spezia che era entrato in città col gruppo che era davanti al mio. Si vede mi conosceva perché mi disse: “Devi venire a mangiare a casa mia”. Io non lo conoscevo, non era dei nostri, forse era in un’altra brigata, ma sapeva di noi delle cose, come se ci conoscesse.
Gli americani non erano ancora arrivati, ma la città si era calmata.
Io e Angiolino s’andò a mangiare a casa del ragazzo. Quando si arrivò in casa la mamma non faceva altro che baciarmi. Vollero sapere tutto, ci fecero raccontare, poi ci fu una specie di pranzo. Dopo pranzo, verso le tre, dovetti tornare al Comune, già avevo fatto una cosa non tanto regolare. A un certo punto – alle 17 – si cominciò a sentire rumore di lontano: era una colonna di americani. Una ruspa davanti spazzava via le macerie, subito dopo carri armati e dietro tutta la truppa sui camion, nessuno era a piedi.

Arrivarono al Comune. Un loro ufficiale che parlava bene la nostra lingua si informò su eventuali perdite. “No, nei giorni passati sì, ma oggi no nessuna perdita, s’è pensato noi di levarli dai tetti”.  Presero loro il comando anche se noi s’era sempre armati.
Io e la mia squadra ci mandarono a prendere alloggio in una scuola. Così passò il primo giorno. Nei giorni successivi si rimase militi in servizio alla città.  Il 25 aprile siamo sfilati; il 29 ci fu la smobilitazione: ci consegnarono il documento di congedo con una piccola somma e noi le armi [27]. La mattina del 1° maggio siamo partiti ciascuno per le proprie case.  Si prese un camion militare che andava a Livorno, io, Angiolino e un altro di Turrita di Siena che non conoscevo. Insieme si prese il primo treno merci che ci portò a Follonica. A Follonica speravo che ci fosse il trenino per Massa come c’era prima della mia partenza, invece era stato soppresso, così ci s’incamminò a piedi, tanto si era abituati a camminare. Si arrivò a Valpiana dove festeggiavano il 1° maggio; stavano tornando tutti i militari alle loro case. Quando si arrivò ci fecero una gran festa: tutti domandavano, volevano sapere se sapevamo di qualcuno che mancava, ma noi non si sapeva niente. Si fece una cena e una festa immense.
A Valpiana accanto alla chiesa c’era la rimessa di un vetturino che era andato a casa; ci si fermò a dormire lì nella paglia.
La mattina si prese il pullman del Saccardi che da Piombino andava a Siena. Ci chiese il biglietto: “Ma che biglietto?”, “Va bene, ho capito”, fa lui. Ci si mise in piedi, davanti, e si chiacchierava.  S’arrivò a Montieri perché a Gerfalco il pullman non arrivava. Scese Angiolino che a piedi raggiunse Gerfalco. Io proseguii per la cantoniera dove c’era la fermata e scesi: c’erano 400 mt a casa mia, dovevo prendere a sinistra e in alto.
Arrivai  e trovai che la polenta era in tavola. Fu un colpo per tutti perché di me nessuno aveva saputo più niente da tre anni. Nel pomeriggio la mamma mi fece cambiare e cercò di levarmi un po’ di pidocchi.
La mattina dopo andai dai Carabinieri per denunciare il mio ritorno. A Travale avevo una zia sorella del babbo, andai allora a salutare.

Al ritorno passai da Petraio, tra Travale e Montieri, dove avevo l’altra zia con un cugino. Sulla strada del ritorno incontrai una ragazza che conoscevo bene. Bisogna pensare come ero ridotto non tanto fisicamente quanto di testa, avevo un turbamento. Non fui capace di dire “Buonasera”, non ero capace di niente. La guerra, i combattimenti, la tensione mi avevano ridotto male: un anno sui monti e ogni giorno c’era “baldoria”. Questo stato durò una settimana. Stetti tutta la settimana a casa, a riposo e a spidocchiarmi.
S’arrivò alla domenica. C’erano delle ragazze a Magrignano. Prima di partire per soldato non ero fidanzato ma ce n’era una che era fidanzata con me per conto suo, fin da ragazzetta, perché ci corrono quattro anni. Le amiche cercarono di farci ritrovare, di farci incontrare. La domenica le amiche ci misero insieme, si fece una lunga passeggiata da Montieri fino al bivio che va a Travale e lì ci fu il primo bacio. Quindi dopo una settimana mi fidanzai e dopo due anni mi sono sposato. E mi sono comportato sempre bene.
Naturalmente dopo qualche giorno dal primo bacio dovetti andare in casa a presentarmi al suocero che aveva fatto la guerra del ‘15 -’18. Fu la domenica dopo, perché durante la settimana la gente lavorava, anche loro erano contadini. Mi presentai, la fidanzata era da un’altra parte: “Sono venuto perché avrei intenzione di …”. Mi ricordo che era in cima alle scale: “Mi raccomando a te perché questa è una ragazzetta”, “Farò del mio meglio”, risposi. Naturalmente dovetti fermarmi anche a cena.
Non entrai in Comune perché non ero comunista, del resto Montieri aveva quella maggioranza, ma non smisi di interessarmi di tante cose.
Continuai a lavorare al podere col mi’ babbo fino al 1955. Il podere era piccolo, non poteva bastare per tutti e non si poteva andare avanti così. Mi ero interessato delle cose del sindacato e entrai alla Coldiretti come capo zona, non solo di Montieri ma di Massa, Follonica, Gavorrano e altri tre Comuni. La campagna non era stata ancora abbandonata e feci subito molte tessere, fino a 800 piccoli proprietari terrieri, avevo anche qualche mezzadro, anche se la maggioranza era comunista.
La sede era a Massa quindi mi trasferii qui da Montieri. Alla Coldiretti ci sono stato qualcosa come trent’anni. Il problema a quel tempo era la pensione dei coltivatori diretti, il versamento dei contributi, la pensione a quelli che avevano già passata l’età che consisteva in 5.000 lire annue. Per me fu facile perché conoscevo bene tutta la zona e d’altra parte la cosa era molto sentita. Fino a quel momento questa gente non aveva avuto nulla.
Anche quando lavoravo alla Coldiretti io avevo in mano tutta la situazione della mia zona. Così cominciai a organizzare delle gite in tutta Europa. Allora non si poteva andare all’Est. Questo lavoro parallelo è continuato per trent’anni fino all’80. Ho coinvolto negli anni migliaia di persone.
Tutti gli anni andavo in villeggiatura al nord d’Italia; nel periodo delle vacanze mi organizzavo per preparare la gita, alberghi, posti da visitare, ecc. Tornato a casa la organizzavo.

 

[ Intervista e trascrizione di Nadia Pagni, Anpi Massa Marittima ]

Note.
[1] Se non avessi vissuto i due anni e mezzo di guerra come ho fatto, se me lo raccontassero forse non ci crederei.
[2] Vicino a Borgo Val di Taro.
[3] Nei gruppi partigiani di Giustizia e Libertà confluirono molte ideologie politiche che facevano riferimento a partiti diversi: DC, P.Liberale, P. Repubblicano, P.S., quindi non c’era un’ideologia dominante come nelle Brigate partigiane rosse dove prevalevano i comunisti.
[4] Della sua stessa idea politica.
[5] Località nei pressi di Zeri e Rossano.
[6] In realtà i lanci notturni erano già cominciati ma non in quella zona.
[7] Intendeva dire che avrebbe parlato lui agli uomini della mia squadra.
[8] Perché le due figlie erano già sposate.
[9] Nasse.
[10] Località sopra La Spezia.
[11] Racconto tutti i ricordi senza una indicazione di data precisa perché non s’aveva orologi, s’andava colla luce del sole e quindi un po’ si perdeva la cognizione del tempo.
[12] Le “ragazze” sono sempre vive e vivono a La Spezia. Ogni Natale ci sentiamo per gli auguri.
[13] Questo gesto significava che mi dava più importanza, più fiducia.
[14] C. D’Oggiono “Alla ricerca del partigiano perduto” Ed. 5 Terre. Al luglio del 1944: “… circolavano voci insistenti circa spie e delatori fatti infiltrare dai nazifascisti tra i partigiani”, pag. 100.
[15] Di Padivarma è diventato poi sindaco il partigiano che aveva la moglie lassù.
[16] Fu l’unica volta in cui in una missione morirono degli uomini della mia squadra.
[17] Si rispose con un’imboscata all’imboscata subita.
[18] Con la tela dei paracaduti la gente s’è cucita di tutto, anche le mutande.
[19] Gordon Lett mi chiese anche di seguirlo in Inghilterra, offerta che mi lusingò ma che rifiutai.
[20] Il Montelama essendo a più di 1.000 mt. di altezza ha molti alberi di noci.
[21] Da Montelama non poteva tornare indietro nessuno perché era il comando di Btg. e il luogo era strategico.
[22] Che prese il nome di battaglia del Gottero e durò dal 20 al 25 gennaio. Impegnò 25.000 nazifascisti contro 2000 partigiani. Op. cit. pag. 129.
[23] Op. cit. pag.   Un rastrellamento con conseguenze gravi era avvenuto il 3 di agosto del ’44.
[24] Ermanno Gindoli morì il 12 aprile del 1945 a Punta della Rocchetta. Op. cit. pag.
[25] I documenti che riguardavano i partigiani erano nascosti per bene in un nascondiglio sotto il pavimento, Ermanno me lo aveva indicato. Era il Registro matricolare con le caratteristiche di tutti i combattenti: sarebbe servito anche per i riconoscimenti militari ed economici. Op. cit. “… i registri del reparto nascosti in luogo predisposto, noto solo al Comandante, al Commissario e a due uomini di fiducia” pag. 136
[26] Il 23 aprile del ’45. Il 10 e l’11 aprile erano state liberate Massa e Carrara.
[27] Per l’esattezza le armi furono consegnate il 28 aprile.