Antonio Gamberi

Persona ho giusta, occhi castagni attenti,
naso aquilino, scarno e lungo viso,
bruno e rozzo color, languido riso,
capo chino, bei cigli e guasti denti.
       Barba sterile rada e baffi stenti,
       mento ristretto e porto il crin reciso;
       serio d’aspetto son, di sguardo fiso:
       vesto al costume delle basse genti.
Amo l’umanità rejetta e trista.
Cotai vizi e virtù possiedo. E sono
Ateo convinto e fermo e socialista.

 

 [Ritratto di Antonio Gamberi del pittore Ado Pericci]

Questi versi (intitolati: “Il mio ritratto”) furono scritti al principio del secolo [scorso] da un uomo che, per un trentennio, fu molto popolare fra i lavoratori maremmani, per il suo generoso impegno in favore degli sfruttati, per le sue doti di oratore e per le sue qualità di poeta.

“Segaligno, vestito di scuro, con cappello tondo in capo, parlava bene – così lo descriveva un nostro anziano concittadino follonichese nel 1975 [1]  – e girava nei paesi per vendere i libri, che teneva nella musiera” [2] .
Neanche il fascismo (nel ’28 gli squadristi di Roccastrada gli augurarono la ghigliottina, o dieci pallottole nella schiena, sulla «Maremma», il fogliaccio grossetano che dal ’38 al ’44 doveva condurre una vergognosa campagna antisemita) [3]  riuscì a cancellarne la memoria fra i sovversivi della nostra zona.
“Quando, prima della seconda guerra mondiale, incontravo Baldoria o Adamo in campagna – ci ha raccontato uno di loro – lontano dai fascisti e dalle loro spie, rammentavamo qualche volta il Gamberi, e le sue poesie contro gli interventisti e ci domandavamo se era ancora vivo, perché, dopo il fatto del prete, non s’era saputo più nulla né di lui né di Meo” [4].

Ma chi era Antonio Gamberi?

Nato a Grosseto il 16 maggio 1864, da Gaetano e Carolina Scaramelli, aveva seguito la famiglia a Tatti [5], dove la morte del padre lo aveva costretto a lasciare gli studi dopo la seconda elementare, per guadagnarsi da vivere prima con le “faccende” della campagna e poi con la legatura dei libri o facendo, occasionalmente, il garzone in miniera. A 14 anni era tornato sui libri per migliorare il suo italiano, frequentando “per 65 lezioni” la “guida pedagogica di un servo di Dio”, poi, quando ne aveva trenta, aveva fondato la sezione socialista di Tatti. Massimalista, si dichiarò favorevole nel 1895 alla conferma dell’On. Ettore Socci alla Camera (l’antico garibaldino – replicava Gamberi ai suoi amici – si era sempre battuto contro Crispi), e denunciò più volte la politica antioperaia delle società minerarie e dei loro tecnici [6] .

Nella lunga e difficile battaglia per la difesa dei diritti di legnatico dei tatterini affiancò il medico condotto Goffredo Iermini, che era l’alfiere della lotta, e, come lui, fu condannato il 12 novembre 1895 a tre anni di domicilio coatto dall’apparato repressivo dello Stato (Crispi imperava ancora, distribuendo galera e confino), che parteggiava per il principale avversario della popolazione di Tatti, un latifondista di Siena.

Tornato in libertà dopo la revoca del provvedimento, Gamberi si prodigò, dal 1896 al 1898, per lo sviluppo della Camera del lavoro di Massa Marittima, insieme al repubblicano Leopoldo Gasperi [7] e ai socialisti Varese Parrini [8] e a Narciso Fedeli [9], poi, superata senza troppi guai la “reazione pelluxiana”, venne schedato nel 1900 [10] .

Trasferitosi nel 1904 a Roccatederighi, collaborò regolarmente all’«Etruria nuova», l’organo provinciale del Partito repubblicano, fino al 1907 (salvo un periodo di alcuni mesi che coincise con la sua decisione di sostenere alle politiche il candidato socialista Romolo Sabatini, contro il deputato uscente, il repubblicano Ettore Socci). Dei suoi articoli di quel quadriennio, firmati spesso con gli pseudonimi di “Rinio” o di “Nagario”, meritano di essere ricordati quelli sui preti, sugli “incappati” e sui brogli elettorali.

 “Ateo convinto”, espresse sugli “incappati” o flagellanti di Roccatederighi [11] giudizi simili a quelli di altri socialisti o anarchici (come Pietro Ravagli e Florindo Andreini), che quelle forme di religiosità popolare condannavano senza appello: “Il venerdì Santo a Roccataederighi, fu giornata di teppa clericale. Dalla processione di mezzogiorno a quella serale fu tutto un cimentare, un provocare, specialmente la gioventù, da parte di una banda di incappati, gente settaria, intollerante e brutale; spurgo, il peggiore, della tradizionae e famosa disciplina; avanzo di gabbacristi che sorge dai fondacci di sacrestia per ammorbare l’ossigeno pubblico e turbare la pace dei liberi cittadini, con parole ingiuriose, con invettive da truogolo….”
In più di un’occasione mise la sua penna al servizio di altri sovversivi ingiustamente perseguitati, come Elia Baldanzi, un anarchico roccastradino, condannato nel 1900 per aver commentato l’uccisione di re Umberto con queste parole: “Hanno ammazzato l’orso”. Gamberi bollò, nel 1907, i diffamatori del noto militante libertario, che essi accusavano – celandosi dietro l’anonimato – di essere il mandante di omicidi e attentati immaginari.
La denuncia di alcune irregolarità, durante un’elezione amministrativa a Tatti, costò a lui (e a Giuseppe Carlo Benci, gerente dell’«Etruria nuova») un processo, che si chiuse con la sua condanna a sedici mesi di reclusione (e quella di Benci a dodici) e che lo spinse a riparare in Svizzera e in Francia. Sull’espatrio clandestino Gamberi scrisse nel 1908 una lirica: “La mia fuga”, che apparve su «La Blouse» di Firenze, la “rivista di letteratura operaia, compilata esclusivamente con scritti originali dei lavoratori del braccio” e diretta da Lorenzo Cenni, alla quale collaborava dal 1906.

Oltr’Alpe, dopo essere passato per Lugano e Auboué, trovò rifugio a Joeuf, dove dimorò per quasi sette anni, continuando ad inviare articoli e poesie ai giornali e alle riviste socialiste e sindacaliste italiane.
Per vivere faceva il manovale e il minatore, ma la sua gracile fibra lo obbligava spesso a ripiegare sulla vendita di libri e giornali politici fra i nostri emigranti. A Auboué era attiva una piccola “colonia” di tatterini e roccastradini, che si aiutavano reciprocamente e lo aiutavano in caso di bisogno. E di alcuni di loro (l’anarchico Leopoldo Baldanzi, il sovversivo Giocondo Tognoni, il socialista Giuseppe Faelli ucciso a 57 anni dal crollo di un masso nella miniera di Auboué) Gamberi scrisse necrologi commossi per i fogli maremmani, perché i compagni sapessero.
Intanto nel Grossetano ci si sforzava di trovare il modo per farlo tornare in Italia, evitandogli il carcere, e le elezioni politiche del 1909 parvero fornire l’attesa occasione. Con 15 voti su 27 la Federazione socialista di Grosseo decise di contrapporre il suo nome al candidato repubblicano uscente, l’avv. Pio Viazzi, subentrato nel 1905 al defunto Ettore Socci, ma la scelta venne ribaltata nelle settimane seguenti in favore del prof. Giovanni Merloni.

Per protestare contro quella disinvolta operazione e le bassezze che l’avevano contornata (il segretario del P.S.I. di Grosseto aveva avuto l’improntitudine di chiedere a Gamberi di iscriversi al partito, pur sapendo che aveva fondato la sezione di Tatti e che era membro di quella di Lugano) il socialista tatterino Cerfolli denunciò da Auboué su un foglio sindacalista la “boieria” compiuta il 15 agosto 1908 “a danno del nostro compagno carissimo Antonio Gamberi” dai “riformicoloni” dell’apparato, che gli avevano preferito il prof. Merloni, non piacendogli “il nome di operaio”.

Rimasto forzatamente in Francia Gamberi poté comunque far stampare a Firenze, grazie alla “cura” di Lorenzo Cenni, il suo primo opuscolo poetico: “Il conciliabolo, il prete: versi per Antonio Gamberi (minatore)”, quindici pagine che vennero tirate dall’officina tipografica A. Vallecchi. Nella prefazione Cenni diceva: “A questi ultimi versi martelliani inediti – il conciliabolo – aggiungo per desiderio di moltissimi amici, la poesia Il prete già inserita nella rivista La blouse e giudicata benevolmente da dei veri intellettuali…”
Sempre a Firenze apparve nel 1913 la prima corposa raccolta delle poesie di Gamberi, un volume di 223 pagine, che proponeva le liriche scritte in esilio dal 1908 al 1911, fra cui “L’assassinio di Francisco Ferrer” (in ottava rima) e “Al compagno Sante Cigni”[12] . A Joeuf  Gamberi visse fino al ’14, quando, sospesa la pena, rientrò in Italia.

Il conflitto mondiale ardeva già e il poeta si schierò subito al fianco dei pacifisti, dando vita a Roccastrada e a Roccatederighi, con molti di loro, ad alcune accese manifestazionei antibelliche, che si conclusero con molte denunce. A guerra finita confermò le sue scelte massimaliste e tenne diversi comizi a Tatti, a Boccheggiano e a Scarlino, dove il 21 ottobre 1920 era ad ascoltarlo un giovane sovversivo, che 55 anni più tardi lo avrebbe ricordato con queste parole: “La gente era accorsa a sentirlo, aveva la voce tonante…”.

Nel 1920 fu pubblicato a Firenze un altro suo poderoso tomo di poesie, intitolato: “Battaglie sovversive”. Le pagine erano 304, la tipografia quella del Polli. Dedicato: “Alla sacra memoria di Rapisardi…”, conteneva una brevissima avvertenza dell’autore. I temi erano in gran parte politici, le poesie erano state scritte in Francia e in Italia dal 1914 al 1919. In quelle pagine c’erano gli emigranti, il Giusti, il Rapisardi, il Carducci, il “poetastro di Scarlino”, gli amici e i compagni caduti nell’immane macello (Basilio Ferrari, Ranieri Santoni ed Eufemio Bucci) [13] , Fritz Adler, Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht.

Dopo la scissione di Livorno, Gamberi rimase nel P.S.I., e, agli attacchi dei comunisti, replicò così nel maggio del ’21: “L’ultima volta che ho parlato a Boccheggiano e Tatti, povero me! Sono stato sfortunato, poiché – ingenuo che sono! – ho avuto il torto di esporre ciò che penso io, anziché quello che pensano i “puri”. O che sapevo io che la sincerità offende le pudibonde orecchie dei rossi passati all’altra riva? Secondo il corrispondente dell’«Idea comunista» cominciai bene e finii male perché criticai – nulla importa se obiettivamente e serenamente – il distacco dei puri dal Partito Socialista. Ma i puri scherzan poco e mi han rimbeccato a dovere, confesso che hanno fatto bene. Così imparerò che il diritto di critica, quasi sempre di diatriba, compete solo a loro. Noi, che secondo i puri, siamo pompieri della rivoluzione, socialdemocratici, traditori del roletariato e… chi più ne ha più ne metta, noi abbiamo l’obbligo di tacere e di prendere musulmanamente ciò che ci scaraventano addosso…”
Intanto nella provincia maremmana montava l’ondata fascista ed in luglio [14] ci fu la strage tremenda di Roccastrada, durante la quale gli schiavisti trucidarono Vincenzo Tacconi e Luigi Nativi [15] ed altre otto persone, dopo essersi sparati fra loro [16]. Meno di un anno dopo, il 13 maggio 1922, lo squadrista Soldatini bastonava selvaggiamente il poeta a Roccatederighi, lasciandolo ferito in un campo. Non confidando nei magistrati, Gamberi non denunciò l’aggressore e, qualche tempo dopo, riprese la strada dell’esilio, fermandosi ancora una volta a Joeuf. A quasi sessant’anni era di nuovo fuori dall’Italia, all’estero: solo, in cattive condizioni di salute, in un paese che non era tenero coi sovversivi stranieri, che continuavano “a far politica”.
Per qualche anno il nostro fece il manovale per la società mineraria di Joeuf, poi tornò a vendere opuscoli e giornali antifascisti e nel ’26 fu colpito inevitabilmente da un provvedimento di espulsione, che venne sospeso grazie alle proteste di alcuni deputati comunisti e socialisti francesi.

Lo stesso anno riuscì a dare alle stampe a Parigi, per i tipi di A.R. Morelli, un altro grosso tomo: “Battaglie antifasciste”, di 264 pagine, che raccoglievano le poesie scritte dal 1921 al 1925, usando talvolta (in “Moniti”, ad esempio) l’ottava rima: Fra i personaggi politici rammentati non mancavano Costantino Lazzari e Paolo Valera, Giacomo Matteotti e Roberto Marvasi.
L’otto agosto 1926 Gamberi venne fermato dai gendarmi francesi alla frontiera del Lussemburgo con un certo numero di copie del suo ultimo libro e respinto (o peggio costretto ad entrare clandestinamente) nel paese confinante [17]. Tornato più tardi a Joeuf, venne arrestato nel 1928 con l’accusa di essere il mandante dell’omicidio di un prete della “Bonomelli”, strettamente legato ai fascisti, che era stato ucciso dall’anarchico scarlinese Angiolino Bartolommei.
Riconosciuto estraneo al fatto e scarcerato, nonostante le forti pressioni del governo italiano e dei suoi “diplomatici”, Gamberi dovette peregrinare per diversi anni fra il Belgio, il Lussemburgo, la Catalogna e la Francia, dove nel 1932 vide la luce il suo quinto volume di poesie: “Rime sparse”, dal contenuto fortissimamente antimussoliniano.
Ancora membro del troncone massimalista del P.S.I., che nel 1930 aveva escluso dal partito Pietro Nenni e altri riformisti [18], Gamberi scriveva ogni tanto degli articoli per l’«Avanti!», sulle cui colonne stigmatizzò (pur apprezzandone il valore scientifico) il servilismo del glottologo Zingarelli, che aveva dedicato il suo celebre dizionario al duce del fascismo.
Lontano e ostile agli stalinisti, il nostro conduceva una vita stentata, nonostante l’aiuto che gli fornivano i massimalisti Silvio Barberini (Sidney), Alfredo Barbati (poeta anche lui), Adolfo Catoni e Giuseppe Fusero (più tardi miliziano in Spagna nella Colonna internazionale Lenin del P.O.U.M.) e l’anarchico Gaetano Capitani: E proprio grazie a Barberini poteva apparire nel ’37 il suo ultimo opuscolo a stampa, “Epopea spagnola”, 16 pagine in ottava rima, “edito a cura di Sidney pro Spagna rivoluzionaria. Per le ordinazioni scrivere al Partito socialista italiano (massimalista) boîte postale 28, Paris XII”.

Nonostante i suoi 73 anni, Gamberi si occupava dell’arruolamento dei volontari antifascisti per la Spagna e figurava ancora – non avendo mai ceduto al nemico di classe e alla dittatura – nell’elenco degli attentatori maremmani, insieme agli anarchici Settimio Soldi, Picche Cignoni, Angiolino Bartolommei, Pilade Grassini e Ruggero Gonnelli [19]  e al massimalista Adolfo Catoni.
L’impegno non gli impediva di commentare, con nuovi versi, che stilò quasi giornalmente fino al 1939, la tragica corsa dell’Europa verso la catastrofe.

La morte lo colse a Joeuf, dove si spense nel 1944, a 80 anni.
La notizia della sua scomparsa fu portata l’anno seguente, a Tatti, al nipote prediletto Duilio Fiacchi [20] , da Zeffiro Bertini e Dino Cillerai, due compaesani tornati in Italia dopo vent’anni di esilio.

Moniti

Non mi sorprende che la borghesia
invecchiata, decrepita, infrollita
smarrisca la ragion, perda la via,
come una delirante rimbambita;
né che a tanti delitti scesa sia,
macchiando eternamente la sua vita.
È lo sforzo supremo d’una classe,
per reggersi al dominio sulle masse.

È legge umana che, quando s’avanza
il ceto proletario sottomesso,
usi il dominator oltracotanza,
oltre le leggi, oltre il costume stesso.
Talché, da un lato, abbiamo la speranza,
dall’altro, il bujo tenebroso e spesso;
ma il nuovo, sempre forte del diritto,
prima e dopo, trionfa nel conflitto…

(Da Battaglie antifasciste, 1926).

Epopea spagnola

Trascorron gli anni e se ne va la vita
verso la sera, menomata e stanca.
Fra scarso udito e vista indebolita,
la forza del pensiero vacilla e manca.
Ma nella confusion vasta, infinita,
di cui tripudia Creso e si rinfranca,
serbo la fede e il desiderio interno
di stampar la Cronistoria ed il Quaderno.

All’occidente là, frattanto io scerno
Rabbia che infuria in civil guerra enorme,
ove l’infamia del fascismo odierno
si manifesta in centomila forme.
E la democrazia d’obbrobrio eterno
Si macchia, mentre temporeggia, o dorme,
o propugna evirato neutralismo
che la strada facilita al fascismo

(Da Epopea spagnola, 1937).
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Note

[1] Si trattava di Antonio Toninelli. Originario di Scarlino, aveva lasciato il P.S.I. nel 1921 per aderire al P.C.d’I. , di cui fece sempre parte. Aveva un fratello, che si chiamava Michele e che era stato presidente della Cooperativa agricola e badilanti di Scarlino, prima della bufera fascista.

[2] Segretario della Federazione giovanile socialista grossetana nel biennio rosso,  Pietro Menichetti ricordava così Antonio Gamberi: “Era socialista, i suoi abitavano a Tatti. Una volta l’ho sentito parlare a Massa Marittima, forse dopo la prima guerra mondiale. Era molto amato dai compagni e in genere dai sovversivi, vestiva poveramente, aveva una voce potente, una capacità di improvvisare straordinaria. Sapeva anche cantare e piuttosto bene. A Massa capitava anche per vendere i suoi libri. Alora veniva con una ciuca o una mula, portava i libri, che erano accolti con molto piacere dai compagni.” 

[3] Con linguaggio menzognero e violento, i fascisti di Roccatederighi scrissero sulla «Maremma» di essere rimasti “oltremodo sorpresi e sdegnati” del rilascio di Antonio Gamberi, “salito ai fastigi della delinquenza internazionale come mandante dell’assassinio di don Caravadossi… È un delinquente nato che è vissuto e vive in un ambiente putrido e infetto e che ha volta la mente sempre al male: Era degno della ghigliottina: la sua fine sarà quella dei rinnegati e degli assassini. Una benda agli occhi e 10 pallottole nella schiena, ecco il nostro augurio e le nostre speranze”.

[4] Meo era Angiolino Bartolommei, Baldoria era Domenico Cignoni, Adamo era Adamo Petrai. Tutti e tre avevano fatto parte, insieme a Marx e a Francesco Portanti, a Pinamonte Borborini, a Picche Cignoni, a Biagio Cavalli, a Settimio Soldi ( e a Belluria [Gioacchino Bianciardi], al Ministro [Serafino Pellegrini] e a Ciccale [Annibale Duccini] che prima della capriola aveva scrito dei bei versi), della Federazione anarchica maremmana e tutti – meno il gavorranese Borborini – erano stati membri del Gruppo libertario scarlinese.

[5] Antonio Gamberi aveva una sorella, che era la mamma di Pietro, Duilio ed Emidio Fiacchi. A Pietro, morto durante la prima guerra mondiale, lo zio dedicò una lirica.

[6] Come fece, ad esempio, su «La Martinella» di Colle Val d’Elsa, occupandosi della miniera lignitifera di Casteani, ubicata presso Ribolla.

[7] Minatore, babbo di Lucilio, Giuseppe, Alberto, Sigismondo, Mario e Amelia, Leopoldo Gasperi morì a Massa Marittima nel novembre 1912 (Santini. Orazione sulla bara di Leopoldo Gasperi, Massa Marittima, 9 novembre 1912; Ciao Pointer, Gianna. Test., Follonica).

[8] Nato a Massa Marittima,  buon oratore ed organizzatore sindacale, Varese Parrini collaborò a «La Martinella» di Colle Val d’Elsa,  a «La Riscossa» di Siena e ad altri giornali socialisti.

[9] Sarto suveretano, residente a Follonica, Narciso Fedeli fondò nel vilaggio costiero una sezione della Camera del lavoro di Massa Marittima e una sezione socialista, coadiuvato dal socialista di Pontassieve Eugenio Azzerboni. Arrestato nei giorni della reazione del 1898, si trasferì successivamente a Piombino, dove abbracciò le idee anarchiche e diventò il gerente del foglio sindacalista «Il Martello», subendo gravi persecuzioni. Confinato per qualche tempo a Massa Marittima, morì a Piombino nel 1912. Gino Spagnesi ne ricordò la generosa e impegnata militanza ideale e politica in un necrologio, che apparve su «Il risveglio» socialista».

[10] Il profilo poliziesco segnalava che era alto m.1,70, che non aveva titoli accademici, che si comportava bene verso la famiglia, era “ascritto” a Partito socialista e aveva molta influenza a Tatti e nei paesi limitrofi, scriveva per l’«Etruria nuova» di Grosseto e per «La Martinella» di Colle Val d’Elsa, svolgeva assidua e ininterrotta propaganda fra le classe operaia, era capace di tenere conferenze ed anzi ne aveva tenute “diverse nel suo paese, ma in case private”.   

[11] Sugli “incappati” rimandiamo alle acute pagine che Roberto Parrini ha premesso al poema di Pietro Ravagli, “I flagellanti di Roccatederighi”,  «Reperti», Grosseto, n.1, giugno 1977, p.1-4.
 
[12] Arrestato con l’accusa di favoreggiamento dei disertori della Banda del Prete, della quale facevano parte gli anarchici Curzio Iacometti, Chiaro Mori, Italiano Giagnoni e Primo Menichetti e il socialista Giuseppe Maggiori, Sante Cigni morì in carcere a primi del 1919.

[13] Originari di Tatti, di Roccatederighi e di Roccastrada.

[14] Alla fine di giugno era caduta Grosseto. Gli schiavisti nerocamiciati giunti da Montepescali, Scarlino, Siena, Montepulciano, Livorno, Pisa – fra loro alcuni medici e studenti di medicina dell’Ateneo senese – avevano ucciso gli operai Arcadio Diani, Giovanni Neri e Angelo Francini, ferito Mario Formichi, Armida Di Betto, Amos e Giuseppe Meacci, Angelo Mecherini e Iole Bucci, bruciato o devastato la Camera del lavoro, la redazione del settimanale socialista «Il risveglio», il Circolo dei ferrovieri, il Caffè Greco, ritrovo abituale degli anarchici, gli studi e le abitazioni dell’avv. Francesco Saracinelli e Umberto Grilli, di Primo Lessi e Curzio Cipriani, la calzoleria Cutini, ecc.

[15] Sull’assassinio di Luigi Nativi si veda la testimonianza del figlio Venanzio, raccolta a Roccastrada da Rodolfo Bugiani.

 [16] Gli squadristi, partiti da Grosseto, servendosi di un camion sottratto alla Rama e di  di un altro camion fornito da un agrario di Campagnatico, avevano devastato, al loro arrivo a Roccastrada, l’orologeria del comunista Tagliaferri e il bar dell’anarchico Davide Bartaletti,  dove si erano ingozzati di liquori e avevano rubato una damigiana di marsala, poi, a poca distanza dall’abitato, avevano messo mano alle armi, aprendo il fuoco ed uccidendo per errore un proprio camerata. Tornati a Roccastrada, accusando i comunisti di un inesistente agguato, ammazzarono tutti coloro che incontrarono e incendiarono varie abitazioni, fra cui quella dell’esponente socialsta Dante Nativi. Particolare crudeltà mostrarono verso il calzolaio invalido Vincenzo Tacconi, che trucidarono a pistolate e pugnalate.: “Al calzolaio Tacconi – detto Grucci perché mutilato di guerra e privo di una gamba – fu bruciata la casa. Il Tacconi che si era rifugiato in cantina per sfuggire all’incendio fu visto comparire sulla porta che ardeva. Gli furono allora sparati contro molti colpi di rivoltella, ma poiché ciò non bastava a finirlo, fu sgozzato” (Raccapricciante narrazione della strage di Rocccastrada, «L’ordine nuovo», n.208, 8 lug. 1921). Quanto all’“imboscata comunista”, per smentirla basta rammentare che i comunisti e l’anarchico denunciati o arrestati subito dopo la strage fascista, per avvalorare la menzogna della provocazione e del tranello orditi dai sovversivi, furono prosciolti in istruttoria o assolti dalla Corte d’assise di Grosseto, dopo una lunga, dura e ingiusta carcerazione preventiva.  

[17] Come succedeva spesso agli esuli, non soltanto italiani, alcuni dei quali (come Giuseppe Capizzi, che cadde in Spagna il primo agosto 1936, combattendo contro i franchisti) furono costretti a vivere per anni lungo le frontiere, cacciati da una parte e dall’altra. Per conoscere la drammatica condizione dei profughi nei “paesi democratici” europei negli anni Venti e Trenta è utile la lettura degli straordinari  romanzi di Erich Maria Remarque: “Arco di trionfo”, “Ama il prossimo tuo” e “Notte di Lisbona”. 

 [18] Pietro Nenni, Bruno Buozzi, Claudio Treves, Giuseppe Saragat, Filippo Turati ed altri dettero vita, dopo l’uscita dal P.S.I. massimalista, a un P.S.I. riformista, che pubblicava a Parigi il settimanale «Il nuovo Avanti».

[19] Ruggero Gonnelli – uno di “quelli del passo avanti” (il gruppo di cui faceva parte anche Lelio Iacomelli e del quale era portavoce Otello Soldati) – è stato ricordato brevemente da Aristeo Banchi nelle sue memorie.

 [20] Duilio Fiacchi (28 novembre 1898 – 9 aprile 1993) e il suo fratello gemello Emidio (28 novembre 1898 – 12 dicembre 1982) erano soprannominati “i fratelli Bandiera”, in ricordo dei martiri di Rovito di Cosenza.

 

( Scheda di Fausto Bucci ed altri )