Primo Menichetti

Figlio di Niccolò e di Antonia Gamberucci, nasce a Castel di Pietra (GR) il 19 settembre 1895 e fa il muratore. Anarchico, è membro del gruppo libertario di Gavorrano, insieme a Vittor Ugo Rossetti, Amedeo Bernacci, Amos Lazzi, Ugo Martellacci e Fortunato Ferrarini, ed è collegato, prima della “grande guerra”, all’anarchico Ugo Pacini, uno dei fondatori del Circolo Germinal di Grosseto, insieme a Francesco Sartini, Bruno Marcucci, Olivo Goracci e Alfredo Stocchi. Chiamato alle armi nel 1915 ed arruolato nel 18º reggimento bersaglieri, viene ferito tre volte in combattimento. Dimesso dall’Ospedale militare di Pisa il due ottobre 1917, torna a casa in convalescenza per 30 giorni, ma il due novembre 1917 diserta, invece di rientrare nel reparto. Due giorni dopo «il Risveglio» socialista di Grosseto pubblica il seguente trafiletto: “Primo Menichetti e Arsede Romboni [altro disertore] residenti a Castello di Pietra avendo terminato la loro licenza di convalescenza partono salutando le compagne e i compagni rivoluzionari intransigenti e inneggiando alla pace inviano al valoroso Risveglio lire 3,50”.

Secondo la stampa conservatrice, che si occuperà di Menichetti durante il processo davanti al Tribunale Militare di Firenze, la scelta di Primo sarebbe stata influenzata da Clitennestra Pighetti [nel disegno], una militante socialista, amica di Adina Spagnesi e di Frattina Baldini e fondatrice della Lega operaia di Casteani, processata per favoreggiamento dei disertori e ricordata fino a pochi anni fa perché, nel “biennio rosso”, teneva, nelle piazze o nelle sezioni, dei comizi sovversivi, salendo su un tavolo per parlare. Donna di notevole bellezza e di indubbia fierezza, la Pighetti suscita, per il suo impegno, la curiosità dei cronisti, che ci ricamano un po’ sopra e la descrivono come “una ragazza imbevuta di idee anarcoidi che nelle sue lettere [a Menichetti] si firma quale compagna di fede e dice d’amarlo perché è forte e ribelle…”.  Raggiunte le folte macchie di Tatti dopo aver disertato, Primo si unisce alla “Banda del Prete”, un gruppo di disertori, che tentano di creare un’organizzazione militare, dopo l’arrivo di Curzio Iacometti, un anarchico monterotondino, soprannominato “il Prete” per gli antichi studi nel Seminario di Volterra. Ed è proprio Iacometti ad invitare i disertori ad abbandonare l’esistenza stentata e miserabile, che conducono nelle boscaglie, sfamandosi spesso con le radici, e a sollecitarli ad espropriare gli agrari. La “Banda”, in cui Menichetti ha il grado di tenente, assale la villa della famiglia Rovis alla Cura di Massa Marittima, facendosi consegnare del denaro, e compie alcune rappresaglie ai danni delle spie, che infestano la zona fra Monterotondo Marittimo e Roccatederighi. Per debellarla le autorità inviano a Massa Marittima, nella primavera del 1918, venti compagnie di carabinieri, che catturano rapidamente una parte dei disertori, mentre altri si costituiscono vista la soverchiante superiorità dei militari.

Quanto a Menichetti, accerchiato il 9 aprile 1918 alla Porcareccia di Tatti, si arrende, dopo aver tentato di resistere, e si comporta successivamente con molta dignità, come farà anche al principio del 1919, davanti al Tribunale militare di Firenze, che lo ha chiamato a rispondere del reato di diserzione e di quello di grassazione ai danni di un capomacchia, di un orologiaio e di un commerciante. I giornali riferiscono che Primo “depone con fare risoluto, dimostrando di misurare le sue dichiarazioni”, e nega di aver capeggiato i disertori di Prata e di aver organizzato una spedizione alla Collacchia contro un commerciante, che “faceva la spia ai disertori e doveva essere punito…” Nelle stesse circostanze precisa che Curzio Iacometti, quando si è unito ai diserori nella macchia del Sassone, non ha letto loro un proclama, ma una pubblicazione sovversiva, e dichiara che alla rappresaglia contro il commerciante “c’erano tutti quelli che hanno confermato di esserci, questo lo posso dire, ma non dico di più. Devo aggiungere che parlai di un “Toscano”, ma devo dichiarare che questo Toscano non è il Giagnoni. Posso dire che [il commerciante] faceva la spia, e andai con la comitiva a dargli una lezione perché poteva fare la spia anche contro di me. Si è sbagliato a dire che si tratta di rapina, si trattava di una lezione. Io non ho preso nulla, neanche un sigaro; e se nacque quello che nacque tutta la colpa è del [commerciante] perché si mise a sparare dalla finestra, e per questo gli animi si eccitarono…”.

Alla domanda del Pubblico ministero: “ Dove avete preso e trovato quelle poesie sovversive che vi sono state sequestrate ? ”, Primo risponde “ Erano poesie che sapevo a memoria perché io sono molto amante della poesia e così le scrissi a memoria ”. L’accusa chiede nove condanne a morte per Zaccaria Martini, Angiolino Lelli, Luigi Persi, Emilio Sacripanti, Giuseppe Sandri, Italiano Giagnoni, Chiaro Mori, Curzio Iacometti e Giuseppe Maggiori e sette condanne all’ergastolo per Menichetti, Ariosto Sini, Italo e Florindo Sili, Aristide Corsini, Giuseppe Soldatini e Secondo Granelli. Menichetti si vede infliggere il carcere a vita, malgrado il tentativo del suo difensore, l’avv. Ricciulli, di distinguere la sua posizione di “eroico bersagliere ferito tre volte” da quella del “Prete”, a cui ha affibbiato l’epiteto di “barbaro”. La Pighetti, invece, è assolta dall’imputazione di favoreggiamento.

Qualche mese dopo Primo scrive dal reclusorio una lettera a un anarchico di Gavorrano: “Non ti fo scuse sul mio perpetuo silenzio. Da che caddi nel cratere del vulcano umano, gettatovi dalla follia bestiale della guerra, non mi sono sentito più carezzare dalle dolci parole che elevano gli uomini in pace, ma dalla forza prepotente del mostro: il militarismo. Ho visto l’umana strage. Il colore vermiglio del sangue che ha per 4 anni bagnato il terreno di questa misera terra, ha tutto e tutti sconvolto. Al povero soldato fu apprestato l’odioso teatro della guerra con tutti i suoi episodi di feroce contesa. Un teatro grandioso, dove l’umanità si è cozzata incosciamente, versando il suo sangue migliore da cento ferite, e dando agli spettatori il magnifico spettacolo del ridestarsi dell’istinto aggressivo della natura dell’uomo. Ma quale triste parte per gli esecutori del dramma! Non si può esprimere gli orrori di questa guerra civilizzatrice del mondo… L’umanità allora con la sua forza si ribellerà a coloro che la gettarono nel baratro. Io pure vi caddi due volte, inconsapevolmente, ingiustamente. Prima alla guerra, dopo al reclusorio. Dovrei rimanervi eternamente. Non veder più nulla delle cose che mi furono care nella vita, non sentir mai né una voce amica, né una parola cara, ma sempre e solo la voce dell’aguzzino che fustiga e lo spettacolo di tanti sciagurati attaccati anch’essi al comune carro d’infamia. I giornali forcaioli ci calunniano: Colpevoli, briganti, traditori! Mai un amico caro, mai un’unica parola ! Ma voi, o compagni, che respirate a pieni polmoni, diffidate ed aiutateci. Siamo caduti per il nostro ideale, ma risorgeremo ancor più fuori dall’abisso ove ci han gettati, il giorno immancabile e prossimo della comune redenzione. La nostra vita e la nostra libertà è nelle vostre mani. Aiutateci! Saluto i compagni al grido di: Viva l’anarchia”.
Detenuto per una decina di anni, Menichetti si stabilisce, dopo il rilascio, alla Menga, poco lontano da Gavorrano, aprendovi un piccolo laboratorio di falegnameria e restauro, e nel 1943 collabora attivamente alla lotta di liberazione, mettendo in contatto il comunista Aristeo Banchi con i dirigenti regionali del P.C.I.: “Un altro anarchico, che ho conosciuto, – ha ricordato Banchi – abitava a Gavorrano, alla Menga. Era alto, secco, la vita l’aveva indurito. Poco incline a rivedere le sue convinzioni, faceva per diletto – come Vittorio Alunno – il poeta. Era amico di Ugo Pacini, che conosceva da prima del ’15; venne a Grosseto nel ’43 e ci mise in contatto con i dirigenti toscani del Partito comunista. Si chiamava Primo Menichetti, aveva disertato durante la grande guerra. Era stato nelle macchie di Massa Marittima con altri disertori, poi, dopo la cattura, aveva trascorso molti anni in galera” .

A guerra finita, Menichetti riprende il suo posto nel movimento libertario, frequenta l’anarchico ed ex disertore Chiaro Mori, suo vecchio amico, partecipa al III° Congresso nazionale della F.A.I. (Livorno, 23 – 25 aprile 1949), diffonde per molti anni «Umanità nova» a Gavorrano, dove vive modestamente, e collabora al Movimento italiano per la pace. C’è ancora chi lo ricorda mentre, in bicicletta, portava il giornale libertario a Ravi, a Caldana e a Sant’Ansano. Nel 1964 M. si ritira nella casa gereatrica “Falusi” di Massa Marittima, da dove continua a sostenere i giornali del movimento. Il 20 agosto 1969, ad esempio, «Umanità nova» segnala di aver ricevuto da Massa Marittima, tramite il compagno Silvio Quintavalle, 2000 lire da Menichetti, 1000 lire da Vasco Bernardini, 1000 lire da Alberto Gasperi, 1500 lire da Silvio Quintavalle, che saluta Toccafondo e Failla. Sullo stesso numero appare un articolo di Andrea Anelli, “Azione diretta. Da Follonica” e viene data notizia di un versamento di 1000 lire effettuato a Piombino da Dario Franci.

Menichetti muore a Massa Marittima il 2 gennaio 1975 e viene sepolto nel cimitero locale.

Scheda di Fausto Bucci, Manlio Gragnani, Gianfranco Piermaria