Chiaro Mori

Figlio di Antonio e Cecilia Fiorentini, nasce a Prata, frazione di Massa Marittima (GR), il 26 febbraio 1885. Il 1° maggio 1898 gli viene rilasciato il libretto di lavoro per andare a spezzare i solfuri misti alle bocche dei pozzi minerari. Le sue condizioni generali – si legge nel Registro dei libretti dei fanciulli – sono discrete, la costituzione scheletrica è regolare e l’attitudine al lavoro è buona. Seguendo l’esempio del fratello maggiore Costantino Albore, Chiaro abbraccia qualche anno dopo le idee anarchiche e aderisce al gruppo libertario massetano.

Contrario all’intervento militare italiano, viene chiamato alle armi nel 1915 e incorporato nel 51º reggimento di fanteria, Perugia, 2ª compagnia, distaccamento Assisi, ma, nell’aprile del 1917, diserta e si rifugia nelle macchie massetane, diventando uno degli elementi di punta (con il grado di “capitano”) della “Banda del Prete”, così chiamata perché il principale esponente è l’anarchico monterotondino Curzio Iacometti, soprannominato “il Prete” per gli antichi studi nel Seminario vescovile di Volterra. Ed è Iacometti a invitare gli altri disertori e renitenti ad organizzarsi, a smettere di vivere di elemosine e cibarsi di radici e ad espropriare gli agrari. Il gruppo, che comprende una sessantina di persone, fra cui gli anarchici Serafino Magnanelli, Primo Menichetti, Italo e Florindo Sili, Luigi Persi e Italiano Giagnoni e i socialisti (e poi comunisti) Giuseppe Maggiori e Ariosto Sini, opera nelle vallate del Pecora e della Bruna, mettendo a segno alcuni espropri ai danni dei proprietari terrieri, dei fattori e dei bottegai della zona e suscitando vivissimo allarme tra i benpensanti, che chiedono l’intervento delle forze armate.

A questo scopo, nella primavera del 1918, venti battaglioni di carabinieri rastrellano le campagne e le boscaglie intorno a Massa Marittima e catturano molti componenti della Banda. Chiaro sfugge all’arresto, insieme al “Prete”, a Giuseppe Maggiori e a Emilio Sacripanti, e continua a spostarsi per le fittissime macchie di Massa Marittima, Roccastrada, Montieri e Castelnuovo Val di Cecina. Processato in contumacia dal Tribunale militare di Firenze e accusato di “essersi arbitrariamente allontanato verso la metà dell’aprile 1917… dalla seconda compagnia del 51º Fanteria distaccata ad Assisi”, e di grassazione, Mori viene condannato a morte nel marzo 1919, insieme a Giuseppe Maggiori, a Curzio Iacometti e a Emilio Sacripanti. Dopo la sentenza la sua vita non cambia: sempre ricercato, si nasconde presso carbonai e contadini, dai quali riceve un po’ di cibo e un posto (un fienile o un capanno) per dormire, collaborando alla trebbiatura o ai lavori boschivi per sdebitarsi.

Nemico dei fascisti, che tentano di farlo cadere “nelle mani della legge”, ferma, nella notte del 29 aprile 1923, uno di loro, un certo Passini, in località Rio Torto di Prata, dicendogli: “Io sono il Chiarone di Prata, pensa che siamo un nemico di fronte all’altro, tu appartieni alla milizia fascista, è molto tempo che mi perseguitate, ma uno alla volta vi trovo tutti. Per questa sera non ti faccio nulla perché potrebbe succedere troppe cose, però fai silenzio, altrimenti quest’altra volta me la paghi”, e dopo aver pronunciato queste parole si allontana, sempre con la rivoltella in mano. Passini lo denuncia, convinto “che l’aggressore era il noto disertore Mori Chiaro di Antonio e fu Fiorentini Cecilia di anni 38 da Prata, il quale continuamente si aggira in questi paraggi”. Rimasto alla macchia, Mori evita l’arresto fino al 20 aprile 1929, quando viene catturato e incarcerato, perché, frattanto, la sua condanna a morte è stata commutata in pena detentiva.

Rilasciato dopo qualche anno, si trasferisce nei pressi di Gavorrano e a Sant’Ansano impartisce ai bambini dei contadini delle lezioni di musica. Dopo il 1945 riallaccia i rapporti con un altro ex membro della “Banda del Prete”, l’anarchico Primo Menichetti, e sottoscrive al Bagno di Gavorrano, nel dicembre 1947, cinquanta lire in favore di “Umanità nova”, insieme a Menichetti, a Giovanni Cocchetti, a Ottorino Poccetti, a Carlo Petrelli e a Stelio Galeotti. In quegli anni capita spesso a Cobichiaro, al Saragio e a Pianizzoli, dove si fa apprezzare per le sue capacità di improvvisare e “cantare a braccio”.

Il bernescante Lio Banchi lo ricorda così: “Era un omo normale, piuttosto bassotto, un po’ tarchiato, un omo allegro, un omo gioviale, un omo che raccontava le barzellette, un omo da comitiva, insomma. Improvvisava, e di fatti dopo guerra subito il primo che ho sentito improvvisare è stato lui perché veniva alle feste da ballo, a queste feste da ballo, e allora succedeva qualche volta di leticare, no, questi giovanotti si leticavano per via delle ragazze, e lui entrava dentro là, metteva le cose a posto, poi diceva: “Dio Madonna, so’ venuto fra questi giovanotti, / a rischio anche di farli dei cazzotti”, faceva questi versi qui, questi versi me li ricordo”. Chiaro muore a Massa Marittima nel 1952.

( Scheda di Fausto Bucci, Rodolfo Bugiani, Manlio Gragnani )