Michele MARRINI “Michelino”

Nasce il 24 gennaio 1925, a Scarlino. Il padre Giuseppe (1893) fa il badilante a Punta Ala ed è un socialista pacifista, contrario al conflitto mondiale cui è però costretto a partecipare, essendo già partito per il periodo di leva dal 1914. Lunghi anni di guerra segnati dalla tremenda vita di trincea, da barbarie, assalti ma anche episodi di fratellanza proletaria con il “nemico”, come nel caso di una tregua natalizia in cui soldati di ambo le parti – tutti di lingua italiana –  abbattono il diaframma che separa le due trincee e solidarizzano promettendo di non spararsi. Proposito vanificato dagli austriaci che, avvisati da spie, sostituiscono i loro reparti italiofoni con altri provenienti dall’ Est. Catturato, potrà fare ritorno a Scarlino solo nel 1919.

La madre è Balilla Biagioni (1892) discendente di due famiglie – i Biagioni e i Fontani – entrambe appartenenti al movimento ‘garibaldino’ e, nel caso del nonno Oreste Fontani, direttamente attive nel riuscito piano di fuga di Garibaldi, imbarcatosi a Cala Martina per sfuggire ai propri persecutori. Completano la famiglia gli altri figli maggiori Adio (1911), Aspasia (1913) e Coralba (1920).
Il precipitarsi degli eventi che portano al violento affermarsi del fascismo, trovano il padre Giuseppe, ammalato cronico per i postumi della dura prigionia di guerra, dall’altra parte:  trovandosi arbitrariamente iscritto al movimento fascista in quanto ‘’super decorato’’ di guerra, strappa la tessera in faccia al famigerato picchiatore fascista Solimeno Petri, implicato nell’ omicidio del colono socialista Gabbriello Dani.
Nel 1926, a soli 33 anni, il padre muore lasciando moglie e 4 bambini che riescono a tirare avanti solo per la forza della pur minuta Balilla e grazie alla solidarietà parentale e di altre famiglie antifasciste, tra le quali Michele ricorda con piacere i Cignoni.

Michele, già da bambino, è testimone oculare della violenta repressione fascista verso chi ha idee avverse al regime. Il 22 marzo 1930 vede suo zio Francesco Biagioni, libertario, selvaggiamente manganellato  a freddo,  in piazza, da 4-5 fascisti ben vestiti scesi da una grossa auto scura, picchiatori che poi lo fanno arrestare dai carabinieri con l’accusa di ‘provocazione’. Ma la caserma locale è comandata da un  maresciallo ‘atipico’ che si preoccupa delle prime cure mediche: si tratta di Carmine Grande, futuro collaboratore partigiano.

Le botte per lo zio Francesco Biagioni, evidentemente non piegatosi, si ripeteranno il 22/10/1931  ma Michele assaggia in prima persona la discriminazione di non appartenere ad una famiglia di ‘’italianissimi’’. E’ il primo ottobre del 1931 quando, nel primo giorno di scuola della prima elementare, il fascistissimo maestro Pasquale D’Alonzo, solerte osservatore delle disposizioni ministeriali, lo rimanda indietro perché non ha né la tessera (tra l’altro la famiglia non può neanche permettersi di pagare le 5 lire del suo costo), né la divisa da balilla.
La madre – che Balilla lo è davvero di nome ma non di ‘appartenenza’ – lo riporta a scuola inveendo contro il maestro (‘’ alla scarlinese’’ come racconta con orgoglio Michele) e facendolo sedere nel banco assegnatogli, proprio accanto a Ellade, una bambina guarda caso …  figlia del  falegname antifascista Faustino.

Di quel periodo Michele ricorda molti degli antifascisti del paese, talvolta chiamati col familiare soprannome con cui vengono comunemente riconosciuti,  come La Baffa e Cianchino, cioè i fratelli Vecchiarelli, e poi  Derville, Pietrone Grossi, Mazzino , Bona, Baldino e Alcide Biagioni, il falegname Faustino ed il barbiere Gastone Simoncini che saranno tutti presenti nei giorni dello scontro finale per liberare lo scarlinese.
E ricorda bene di aver più volte sentito della la bella lezione di cui si poteva parlare solo sottovoce –  magari arricchendola con gustosi particolari di scherno – che alcuni di questi inflissero in località S.Maria degli Angeli ad una squadraccia fascista di ritorno da una ‘gita’ punitiva alla borgata Biagioni: presi, incappucciati, frustati con ortiche e rimandati a casa. Per la probabile vergogna di chi lo subì,  sembra che il fatto sia rimasto sconosciuto alle autorità.

Dal 1939 Michele, con la madre, si trasferisce a Piombino per lavorare, già a 14 anni, in un’impresa appaltatrice dentro l’ ILVA: qui ha inizio la sua vera formazione per il contatto positivamente contagioso con il mai del tutto domato antifascismo operaio. E’ soprattutto un vecchio anarchico ‘’con accento del Nord’’ a stimolare la sue riflessioni, affascinandolo con libri e racconti orali e che, per questa sua attività ‘’didattica’’, nel 1941, subirà a sua volta una violenta lezione:  all’uscita della pausa pranzo viene ‘’prelevato’’ dai soliti picchiatori in doppio petto che lo caricano a manganellate su un’auto di ordinanza …

Assunto in Magona al raggiungimento della maggiore età, all’indomani del 25 luglio 1943, assiste ad alcune rivincite di operai antifascisti che cercano, peraltro riuscendovi, di restituire una piccola parte di violenze subite da parte di squadristi e ruffiani.

Il primo contatto con le forze della Resistenza è però del tutto casuale. Recatosi a Scarlino per la chiusura  della fabbrica piombinese, durante una battuta a funghi  in località Botrona con due amici di infanzia ( Lirio Cantini e Bruno Coco ), vengono intercettati da uomini armati e condotti nella radura de L’Imposto dove – siamo proprio all’ 8 settembre e le vallate hanno appena risuonato dello scampanio a festa delle chiese di Scarlino, Gavorrano e Follonica che annunciano una effimera fine delle ostilità belliche – si sta svolgendo una riunione operativa di antifascisti che cercano di mettere a punto la prima di una lunga serie di azioni partigiane.
Vi partecipano i principali antifascisti del paese coordinati da alcune figure che avranno un ruolo importante nel movimento resistenziale locale: c’è il tenente di artiglieria Carlo Fabbrini ,repubblicano, il maresciallo dei carabinieri Carmine Grande, Don Ugo Salti parroco antifascista di Follonica e discendente di una vecchia famiglia di sovversivi di Sassetta, tutti attorno al ‘’Signor Livio’’, il delegato del CLN Toscano poi identificato in Dino Livio Frangioni, commissario politico/militare del Partito Comunista.

Data la conoscenza con Floro Fontani e gli altri compaesani, ai tre viene repentinamente chiesto di ‘’arruolarsi’’ prestando giuramento ‘’alla patria’’ davanti al tenente Fabbrini: la sera stessa sono con altri a spargere chiodi  ( ogni giovane viene caricato di uno zaino con 25 kg di materiale) sull’ Aurelia e la rotabile delle Collacchie, prima del passaggio annunciato di una imponente colonna motorizzata tedesca che da Livorno sta recandosi ad occupare Roma.
Dopo un breve ritorno a Piombino, dove fa in tempo a partecipare alla costruzione delle barricate durante la sollevazione popolare contro il contingente tedesco del 10 settembre, prosegue il suo impegno nella Banda Partigiana di Scarlino, sul Monte d’Alma, insieme a tutti i giovani renitenti antifascisti.

Nel marzo del ’44, individuato, sotto minaccia di una rappresaglia verso le sorelle, cede al ricatto repubblichino e si consegna alla milizia prima dello scadere dell’ ultimatum: ma è solo per pochi giorni, perché da questo momento inizia un periodo di fughe e nuove catture.
Trasportato a Rovezzano, presso Firenze, prende tempo per non firmare l’adesione alla Repubblica di Salò ed approfitta della subitanea visita della madre e di una zia [ le donne si fanno concedere ‘’la custodia per un paio d’ ore’’ del figlio  e di due altri scarlinesi fatti passare per  nipoti] per fuggire subito insieme ai compaesani Luigi Fortunati ed Ilvo Benini.

Tornato con mezzi di fortuna a Scarlino, imprudentemente recatosi dalla sorella, Michele viene subito ripreso e condotto a Massa Marittima, dove ha modo di essere ‘’esaminato’’ da Giorgio Almirante in persona ( ‘’aveva uno sguardo di ghiaccio, era sprezzante verso di noi e quando ci levarono i documenti e i pochi spiccioli, prima di consegnarci ai nazisti, ci disse ‘’tanto a voi non servono più’’) e, con altri 25-30 giovani, portato poi a Settignano (FI) per essere impiegato come mano d’opera dai tedeschi nella ricostruzione di ponti e strade.
Nuova fuga sotto un bombardamento, questa volta col livornese Ghignoli, e nuova pronta cattura: scovati in un fienile dai cani dei repubblichini rischiano la fucilazione immediata. Solo l’estrema penuria di mano d’opera fa intervenire i tedeschi che si riprendono i due ‘’operai’’.

La terza e decisiva fuga avviene a fine maggio, sempre con Renzo Ghignoli, e fa loro evitare l’imminente deportazione in Germania: a Rifredi si fingono ‘’kameraden’’ ed approfittano di un passaggio tedesco fino a Pontedera, da dove, dividendosi, proseguono  a piedi.
A Donoratico Michele è fermato da una squadra del gappista Danilo Conti che, con una finta ambulanza, lo trasporta fino a Follonica da dove si riunisce ai partigiani scarlinesi.
Siamo al primo di giugno, inizio della sua attività partigiana vera e propria, sempre al fianco del partigiano Etrusco Cecchi [Etrusco d’ Cavallari].

Michele partecipa a diverse azioni, anche con catture di tedeschi, e il 10 giugno è con gli altri nell’ occupazione di Scarlino, a seguito della direttiva del CLN che ordina l’attacco nell’ Alta Maremma ad eccezione dei comuni di Follonica e Massa Marittima, maggiormente presidiati dai nazisti [ al riguardo Michele si sofferma sull’ occupazione che invece la Banda Camicia Bianca fece quello stesso giorno di Massa Marittima, giudicandola un atto di voluta disobbedienza al CLN, un atto che fece, a suo ricordo, arrabbiare non poco l’altro comandante della zona massetana, Mario Chirici della III Brigata Camicia Rossa].

Il 22 giugno, a seguito del paracadutamento di soldati americani , si è pronti per l’assalto definitivo a Follonica che avviene il giorno 24, con tre colonne che, muovendo da Valle, si allargano per accerchiare il paese, ognuna preceduta da un’ autoblindo americana. Sono circa 120 i partigiani provenienti da tutta la zona, le loro spalle sono coperte dagli obici che sparano dalle alture retrostanti e da altre due autoblinde pronte ad intervenire nel caso i tedeschi forassero l’accerchiamento.

La prima colonna, attraversata l’ Aurelia a Rondelli, taglia a sud verso il Casone ed entrerà dal quartiere di Senzuno: è comandata da Carlo Fabbrini, tenente repubblicano originario di Firenze, con Michele Marrini e buona parte degli scarlinesi, e con Don Ugo – poi medaglia d’Argento al V.M. – che non vuole mancare alla liberazione dei suoi parrocchiani.

Nella seconda, i partigiani gavorranesi di Frassinetti puntano verso il cimitero. A nord, infine, i tirlesi  del tenente Pilade Rotella  stringono il cerchio: tra di loro Michele ricorda Silvano Signori, futuro senatore del PSI. Per troppa precipitazione, sarà la colonna che avrà più resistenza germanica.

In ogni colonna sono presenti i follonichesi cui, per maggiore conoscenza del terreno, viene affidato il compito di disinnescare le postazioni tedesche. Proprio in una di queste azioni, presso il c.d. Cimitero Americano, Virio Ranieri di Follonica perde la vita mentre, munito di bombe a mano, si avvicina carponi ad una postazione munita di mitragliatrice.

Da Follonica, Michele decide di seguire per alcuni giorni gli americani fino a Bolgheri. Il 27 giugno , mentre procedono a piedi, la sua colonna è sorpresa da un mitragliamento tedesco:  il gesto di altruismo di un militare americano che, con una spinta, lo scaraventa a terra lo salva, ma è lo stesso statunitense a rimanere colpito ed a perdere la vita. Successive ricerche di Michele avrebbero individuato l’eroico soldato in John Eddington.

Dopo alcuni anni di militare, Michele Marrini riprende la sua vita civile in fabbrica a La Magona di Piombino da dove, per motivi politici, viene licenziato dopo gli scioperi del 1953. Non piegandosi a compromessi per riprendere il suo posto di lavoro, con la condivisione della moglie  che approva la sua scelta di dignità, prosegue la sua carriera lavorativa come rappresentante di commercio.

Miltante comunista nel PCI, dopo il suo scioglimento non aderisce alla deriva filo capitalista e trasformista che porterà alla nascita del PD, rimanendo ancor oggi convintamente fedele ai suoi ideali marxisti.

Per non aver fatto subito domanda di riconoscimento come partigiano combattente a causa della partenza per il militare, Michele Marrini si trova ‘’declassato’’ [il termine è mio – ndr] alla qualifica di ‘Patriota’ con attività ufficialmente svolta dal 1° giugno al 20 luglio 1944. Da anni ha ingaggiato, per ora invano, una polemica querelle, precisa e circostanziata, per vedersi riconoscere  appieno la sua attività partigiana.

Il nostro tifo va in quella direzione.

 

Appendice

Nel luglio 2012, ad 87 anni, Michele Marrini si è paracadutato da un’altezza di 4.200 metri per ricordare i suoi compagni partigiani ed il comandante Carlo fabbrini.

Una delle prime cose dette al suo atterraggio (ha tra l’altro battuto il record toscano per età e quota) è stata: ” Da lassù ho visto tutti i morti e gli ho detto di tornare in terra per fare pulizia”.

 

[Scheda di Aldo Montalti per www.radiomaremmarossa.it sulla base della testimonianza orale rilasciatagli da Michele Marrini nella sua abitazione di Arcille (Gr) il 25 febbraio 2012).