Scalvaia marzo 1944, infamia e gloria in terra di Siena

Trascrizione di   Infamia e Gloria in terra di Siena durante il Nazifascismodi Smeraldo Amidei, piccolo volume che ripercorre la storia dei c.d. martiri di Scalvaia, scritto poco dopo lo svolgimento dei fatti da un appartenente alla stessa loro formazione partigiana.

Al Cimitero di Scalvaia – Luglio 1944.

A poca distanza da Scalvaia (Monticiano), c’è un piccolo cimitero; molti dei miei compagni vi dormono il loro eterno riposo. Esso non è diverso da tutti gli altri che si trovano nelle campagne: un muro non molto alto ne racchiude la piccola superficie; dinanzi alla strada c’è un cancello, è aperto. Entro. […]
 Nella parte sinistra di chi entra vedo, all’estremità del cimitero, alcune fosse in cui la terra che le ricopre, sopravanzando molto il livello della superficie circostante, dimostra che esse sono state fatte di recente.
Su di una due fazzoletti rossi ed alcune margherite, ultimo omaggio dei superstiti, sono i soli segni che distinguono l’unica fossa ove sono seppelliti gli undici caduti di Scalvaia dalle altre che la circondano.
 Non solo manca “…un sasso che distingua …” le loro ” dalle infinite fosse che in terra ed in mar semina morte ” (Foscolo – I Sepolcri), ma anche un tumulo che un corpo dall’altro divida.

 Il rastrellamento di Monte Cuoio.

 In base ad informazioni raccolte da persone degne di fede, sono in grado di ricostruire, nella quasi totalità, i particolari sulla dolorosa fine dei miei infelici compagni.
 La mattina del 10 marzo 1944, i militi repubblichini perquisirono le case di Scalvaia per assicurarsi che non vi fossero armi e, poichè ogni ricerca rimase infruttuosa, si accontentarono di fare delle razzie; verso mezzogiorno se ne partirono, portando seco Piero Cheli, colpevole di non avere il figlio sotto le armi.
 Nel pomeriggio tre di loro, spacciatisi per partigiani, andarono in un podere vicino a Monte Cuoio, chiamato il ”Poderone” e chiesero alle donne  di casa da mangiare; dopo aver avuto ciò che desideravano, e imposto loro di non fa parola con nessuno dell’accaduto, si allontanarono.
 La mattina successiva, verso le 4, una cinquantina di militi dopo aver lasciato i due camions con cui erano venuti al cimitero di Scalvaia, con nove compagni di guardia, circondarono la casa che ho ricordato e, aperto a viva forza l’uscio, fecero irruzione nell’interno. Imposero a tutti di alzarsi e rovistarono ogni stanza in cerca delle armi, ma non trovarono nulla.
 Un vecchietto di quella casa mi ha detto che, uscito fuori coi fascisti, vide venire verso di loro i tre che il giorno prima si erano spacciati per partigiani.
”Sareste degni di bruciarvi tutti ! Voi tenete mano ai partigiani” gli dissero i nuovi arrivati ed a bassa voce soggiunsero ai propri compagni: “Fate presto, dormono …”.
 Prima di andare via asportarono diverse paia di scarpe e condussero seco, con la violenza, un giovane garzone di quella famiglia perchè insegnasse loro la strada. Sembra però che questo giovanetto, essendo venuto da poco tempo al Poderone da una località molto distante, non fosse pratico del posto, e quindi non sia stato in grado, nonostante le minacce, di rendere loro il servizio richiesto. Il rastrellamento ebbe una dolorosa conclusione: la morte di Giovanni Bovini, il ferimento di Robert Handen e la cattura di 17 giovani, la maggior parte dei quali sprovvisti di armi.

Ironia del destino.

Forse il rastrellamento era già terminato quando, verso le 8 del mattino, io stavo rientrando, insieme a sette compagni, all’accampamento.
 Dapprima sentimmo in lontananza due colpi di fucile mitragliatore; poi vedemmo alzarsi verso il cielo alte colonne di fumo: erano i seccatoi delle castagne, notre abituali dimore, che bruciavano. Ma prima ancora che ci fossimo resi perfettamente conto del perchè dello strano incendio, sentimmo sibilare, sopra le nostre teste, le pallottole delle armi automatiche. Eravamo forse a 200 metri dai fascisti, su un sentiero fiancheggiato dagli scopi, largo forse 80 cm. e diritto. Al fuoco dei fucili mitragliatori, davanti a noi, si unì subito quello di una mitragliatrice piazzata sulla cima del Monte Cuoio, che incrociava il suo fuoco sopra il sentiero.
 La sorpresa, a cui seguì una fitta gragnuola di piombo, che di attimo in attimo ingrossava il suo volume, ci mise nell’impossibilità di portare qualsiasi aiuto a coloro che erano rimasti all’accampamento.
 In tutti eravamo sei moschetti, due pistole, alcune bombe e in media 24 pallottole ciascuno; in tali condizioni, colla morte davanti a ogni passo, non ci rimase che ritirarci. Il destino non volle che cadessimo sul campo, ma che rimanessimo superstiti impotenti dinanzi alla sorte dei compagni.

Verso l’eccidio.

 I prigionieri furono obbligati ad andare, a piedi, portando Handen sopra una scala, fino a dun’aia vicino al cimitero di Scalvaia. Appena arrivati, sette di essi furono fatti salire sui due camions che proseguirono verso Monticiano. Fatti scendere nella piazza denominata ”Il Sodo”, furono lasciati in custodia ad alcuni fascisti.
Erano circa le 10 del mattino.

 Il parroco di Scalvaia, don Antonio Sàrperi, avvisato dell’accaduto, andò subito presso i giovani che erano rimasti vicino al cimitero, e chiese ai militi se avessero intenzione di fucilarli e, nel caso affermativo, gli lasciassero la libertà di somministrar loro i conforti religiosi.
Perchè vi preoccupate di loro ? – gli risposero i militi.
Mi interessa di loro, perchè questi poveri ragazzi sono nella mia parrocchia; so che avete un decereto per fucilare chi viene preso al bosco; ma non li ammazzerete mica così ? – soggiunse don Antonio.
No – essi risposero – sono dei poveri ragazzi: ci dispiace solo che i veri responsabili, cioè i capi, ci sono sfuggiti … -.
 Don Antonio rimase fin verso le 12,30 con questi giovani, ora in cui furono fatti salire, eccetto Handen che gli fu affidato, su un camion venuto da Siena sul quale proseguirono fino a circa 700 metri oltre il bivio di Scalvaia in direzione Monticiano.
 Ivi furono fatti scendere e crivellati dalla mitraglia.
Don Sàrperi, appena fatto consapevole della cosa dal maresciallo dei carabinieri e dal commissario prefettizio di Monticiano, avvisò tre contadini, che insieme con lui andarono sul posto col carro.
 Tre giovani, col cranio fracassato, tenevano la faccia rivolta verso il cielo; negli occhi sbarrati si potevano leggere ancora gli ultimi istanti di terrore.
 Accanto alle salme fu rinvenuto un legno acuminato intriso di sangue.
Sul posto del delitto, i militi della G.N.R. lasciarono appuntato in un segna-strada un cartellone in cui, sulla parte bianca, si leggeva: “La giustizia arriva sempre. Per uno 10…”. Sulla parte opposta figurava l’effigie del Re.
 Dove caddero i compagni, un’iscrizione fatta da mani pietose, dopo la liberazione, ricorda al passante il luogo del sanguinoso massacro.
 I fucilati, verso le 15, furono portati al cimitero, ove intanto il maresciallo e il commissario prefettizio aspettavano; successivamente arrivarono alcuni carabinieri e militi.
 Il maresciallo ordinò che si facesse una fossa unica e si mettessero dentro le salme l’una sopra l’altra, nonostante che don Sàrperi gli facesse rilevare l’opportunità di seppellirli separatamente.
E’ bene togliere il sangue dalla strada il più presto possibile; è guerra. oggi a te domani a me – disse il maresciallo.
 Sul’imbrunire un carro fu mandato a prendere il corpo di Bovini che era rimasto abbandonato nel bosco e, la sera stessa, circa le 20, fu messo nella fossa insieme ai compagni.
 […]

La vendetta di Monte Cuoio.

 La mattina del 18 giugno, alcune persone di Scalvaia trovarono uccisi, dinanzi al cimitero di quel paese,  il maresciallo dei carabinieri Vito Francesco Campanile, il segretario politico del fascio Corrado Galli, coi figli Giustino e Alì, l’avvocato Francesco Pachetti, Reniero Bruscoli, Ottavino Martinelli e Odoardo Ramerini.
 Ai piedi di un cipresso, vicino ai giustiziati, fu apposto un cartello colla seguente iscrizione: “ E’ iniziata la vendetta di Monte Cuoio – Brigata Garibaldi “.

I caduti di Scalvaia.

 Non tutti coloro che caddero sotto il piombo fratricida furono da me conosciuti personalmente, essendo da pochi giorni arrivato su quel fatale monte.
 Fra i compagni che rimangono più cari al mio ricordo, sono i due fratelli Avi, Alizzardo ed Alvaro, di Staffolino (Taverne d’Arbia). Non posso dimenticare con quanta sollecitudine, durante il viaggio che facemmo da una località vicino a Siena fino ad un podere in mezzo ai boschi, chiamato ”Pornella”, sul sentiero che ci doveva condurre sul Monte Cuoio, Alizzardo ed Alvaro mi aiutarono per le stradacce di montagna a portare il mio fardello: ero già stanco per il lungo cammino, ma anche i due fratelli non erano certamente frschi di forze; ciò nonostante, appena feci loro capire che non mi sentivo più di proseguire col bagaglio sulle spalle, con disinteressata bontà vennero incontro al mio bisogno.
 Avevano lasciato la madre ammalata, il padre in condizioni fisiche tutt’altro che floride, due fratellini ancora piccoli ed una sorella di circa 15 anni: erano il sostegno di tutta la famiglia.
 Ma non meno bravi ragazzi erano anche Lilioso Antonucci e Ezio Filippini di Montaperti, che rimasero insieme a me fino alla vigilia del loro sacrificio.
 Lo studente universitario Aldo Mari lo conobbi a Pornella, la mattina stessa che noi partivamo per andare sul Monte Cuoio.  Si trovava nella nostra città perchè sfollato da Roma; aveva disertato l’esercito fin dall’avvento della repubblica ed ora si univa alle formazioni dei partigiani.
 Gli altri cinque li vidi solo di sfuggita negli indimenticabili giorni che precedettero la loro morte; comunque non ricordando di essi nessun particolare, ne affido alla memoria dei superstiti il nome che, anche nella sua semplicità, non farà risplendere di luce minore il loro sacrificio: Azelio Pieri, Cesare Borri, Faustino Masi, Ermanno Fabbri e Solimano Boschi.
 Accanto ad essi riposa Giovanni Bovini, che morì in seguito alle operazioni di rastrellamento sul Monte Cuoio.
[N.B. Per l’ultima vittima, Robert Handen, vedasi apposita scheda di Smeraldo Amidei nella pagina del sito dedicata ai partigiani].

La versione fascista dell’eccidio di Scalvaia.

 Nel giornale ‘La nazione’ del 19-20 marzo 1944 esiste un trafiletto ortante il titolo “Banda di ribelli distrutta presso Monticiano“.
 Eccone il testo originale:
 “Nei giorni scorsi in collaborazione con i militi della G.N.R. della Legione di Grosseto, i militi della G.N.R. di Siena accerchiavano il bosco di Poggio al Carpino, presso Monticiano, stringendo gradatamente la zona in una morsa di ferro.
 Una banda di partigiani e disertori, ivi annidata, vistasi scoperta, reagiva con le armi. Nel conflitto cadevano colpiti a morte dodici partigiani, uno rimaneva gravemente ferito e altri otto venivano fatti prigionieri.
 Venivano liberati quattro soldati del posto di avvistamento di Rognaie, che erano stati fatti prigionieri dalla banda unitamente a due boscaioli. Venivano rinvenute ingenti quantità di viveri, materiali ed armi.
 I prigionieri furono giudicati dal Tribunale Straordinario di Guerra, come già è stata data notizia. Quattro di essi, colpevoli di diserzione, catturati con l’arma in pugno, rei di gesta di brigantaggio, dell’uccisione del milite Neri e del ferimento del commerciante Magrini di Monticiano, venivano condannati a morte e fucilati. Gli altri venivano condannati a ventiquattro anni di reclusione militare
“.

 Tutto quanto viene detto in questo trafiletto basterebbe a convincere qualunque persona, che fosse a conoscenza della verità, di quali spregevoli falsi si servivano i fascisti per giustificare dinanzi all’opinione pubblica i loro misfatti.
 Se i nostri compagni fossero effettivamente caduti in combattimento, ci saremmo maggiormente rassegnati; ma essi, sorpresi nel sonno e privi di armi, non poterono reagire. Circa trenta uomini si trovavano sulle pendici del monte, ma c’erano i moschetti appena sufficienti per cinque persone, qualche bomba a mano, qualche pistola ed un fucile mitragliatore, che s’inceppava dopo avere sparato un paio di colpi.

 La maggior parte di loro, dopo essere stati presi prigionieri, furono fucilati.
 Le ingenti quantità di armi, viveri e materiali, rinvenute sul posto, sono pure invenzioni dei fascisti.
 Nel numero dei morti e dei feriti, aumentato di due, è verosimile vi siano stati compresi anche coloro che furono presi a Sinalunga e graziati a Siena.
 Le colpe che vengono attribuite ai quattro giovani, giustiziati nella nostra città, sono false.
 Almeno Masi, Simi e Bindi, che rimasero con me fino alla vigilia della loro cattura, non parteciparono nè all’uccisione del milite Neri nè al ferimento del commerciante Magrini.
 Atti di brigantaggio furono effettivamente compiuti a Scalvaia e al Poderone, ma gli autori furono i fascisti.
 Che i quattro fucilati a Siena, al momento della loro cattura, avessero le armi in pugno, mi par assai difficile; almeno alcuni, la vigilia della morte, dettero a noi, che partivamo per una missione in cui rischiavamo di imbatterci in qualche pattuglia di fascisti, le bombe a mano che avevano, rimanendo privi di qualsiasi difesa.
 Il fatto, poi, che i quattro militi catturati al posto di avvistamento di Rognaie, non fossero stati fucilati, essendo risultato, in seguito alle informazioni prese, che erano stati reclutati con la forza e che non erano colpevoli di violenze contro nessuno, dimostra che da parte dei partigiani vi fu quella giustizia che i fascisti non ebbero mai per i loro avversari.
 Infine, il vitto dei quattro prigionieri era quello stesso che veniva dato a noi.
 I due boscaioli furono presi prigionieri perchè sospetti di spionaggio.
 Da quanto ho detto, risulta evidente che la falsità è stata per i fascisti l’unica arma per legittimare, dinanzi al mondo, azioni che ripugnano agli uomini civili.

 Due processi per modo di dire.

 I sette Patrioti, che fin dalla mattina dell’11 marzo erano stati trasportati a Monticiano, nel pomeriggio furono fatti risalire sul camion e, all’imbrunire, arrivarono alla ‘casermetta’ ove pernottarono.
 La mattina del 12 furono trasportati al comando provinciale, dove il capitano avv. Giannnelli, giudice istruttore, li sottopose ad un primo interrogatorio; subitone un secondo nel pomeriggio, furno trasportati di nuovo alla ‘casermetta’.
 Dalla sera del 10, in cui avevano consumato la loro frugale cena coi compagni al bosco, fino alla mattina del 13, non ebbero dai loro aguzzini alcun cibo. Anche dopo la condanna, rifiutarono ciò che fu loro offerto dal direttore delle carceri di S.Spirito.
 Dal giorno 11 si trovava nella nostra città il tribunale militare straordinario, venuto appositamente da Firenze per dare una parvenza di legalità alle sentenze di morte che dovevano essere emanate contro i due giovani catturati poco prima a Sinalunga: Alfredo Bacconi e Dino Sennati.
 Presiedeva il tribunale una delle persone più insignificanti e bieche figure del passato regime: il generale Berti.
 “Al termine dell’arringa dell’avvocato che difendeva gli imputati, corsi verso di lui e l’abbracciai e lo baciai …” mi ha detto il cappellano militare Don Mario Menghi “Chi se non noi sacerdoti, poteva essere solidale, in quel momento, con quegli innocenti’“.
 Tutti erano commossi. L’ingiustizia della condanna a morte, chiesta dal tribunale, era stata messa in evidenza dall’Avvocato militare, e per un momento sembrò che la giustizia dovesse trionfare.
 Ma fu breve illusione; la lettura della sentenza confermò che il processo era stato allestito solo per salvare le apparenze: il tribunale doveva dare un esempio a Siena e poco importava se coloro che dovevano subirne le conseguenze erano o no colpevoli.
 L’indomani 12 marzo i due giovani dovevano essere giustiziati.
 Il giorno stesso, però, il famigerato Rinaldi, con i suoi sgherri, aveva fatto buona caccia: dopo aver fucilato i dieci patrioti di Scalvaia ed averne ucciso uno sul Monte Cuoio, ritornava trionfante a Siena, conducendo seco sette prigionieri: Robert Handen, rimasto ferito in combattimento, la mattina di poi spirava all’ Ospedale, come ho detto sopra.
 La notizia del felice esito del rastrellamento non doveva certamente essere ignota all’avv. Giannelli, allorchè verso le 16 dell’ 11 marzo, andò a pregare Mons. Arcivescovo di intervenire affinchè fosse concessa la grazia a Bacconi e Sennati.
 Se effettivamente l’avv. Giannelli fosse stata una persona d’onore, come sembrerebbe da questo suo atto, noi ci domandiamo: perchè prese parte al processo fatto contro i sette Patrioti catturati sul Monte Cuoio, se, come egli ammise nel rifugio del carcere di S.Spirito (verso le ore 11 del giorno 13 ci fu l’allarme) alla presenza di Don Menghi e di Saverio Buonazia, il tribunale doveva pronunziare non meno di quattro condanne a morte, prima ancora che gli imputati venissero giudicati?
 La stessa cosa ripetè, con cinica impudenza, qualche giorno dopo, a don Pietro Raspini, parroco di Montaperti.
 L’ Arcivescovo, appoggiato dal Podestà Socini, potè convincere il prefetto a far sì che la domanda di grazia fatta dai due fosse accolta.
 Chiurco interessò della cosa il generale Adami Rossi, comandante militare regionale, il quale, verso le 20,30, gli comunicò che l’ordine per l’esecuzione della condanna era stato sospeso.
 Il mattino successivo arrivò la notizia che la grazia era stata concessa.
 Secondo il mio parere, la cattura dei sette giovani, avvenuta lo stesso giorno del processo di Bacconi e Sonnati, e quindi la possibilità di infierire su altri innocenti concedendo le due grazie, non fu estranea alla concessione fatta da Chiurco all’ Arcivescovo di appoggiare la domanda di grazia.
 Il giorno 13, alle ore 8 del mattino, si riunì di nuovo il tribunale militare straordinario.
 Il processo si svolse all’aperto, davanti alla caserma di S.Chiara.
 Furono chiamati a difendere gli imputati sette ufficiali che, secondo testimoni oculari, non sapevano nè parlare nè tacere: del resto, anche se al loro posto vi fossero stati dei valenti avvocati, il risultato della triste farsa sarebbe stato il medesimo.
 La pseudo indulgenza del tribunale, la cui sentenza doveva almeno formalmente apparire regolare, si manifestò in pieno: esso trovò delle attenuanti solo per i fratelli Muzzi e per Alberto Paolucci, che condannò a 24 anni di carcere ciascuno, mentre per Masi, Simi, Bindi e Borgianni pronunziò la sentenza della pena capitale.

  Verso il sacrificio supremo.

 Alle 13,30, appena lette le sentenze, essi furono portati a S.Spirito, accompagnati dai cappellani militari.
 Dalle 15 alle 16 furono preparati da don Mario Menghi e da P. Armido Sanguin a ricevere i sacramenti.
 Alle 16 ricevettero la Comunione, fecero il loro ringraziamento e pregarono fino alle 16,30.
 Renato Bindi, vice presidente di Azione Cattolica di Montaperti, giovane di ingenua bontà, al cappellano che lopreparava alla morte, disse:
Perchè gli uomini sono tanto cattivi ? Perchè ci ammazzano ? Che cosa abbiamo fatto ?
 Primo Simi, a causa della malvagità della condanna, fu colto in un primo tempo dalla disperazione che, dinanzi ai conforti religiosi, si dissipò, generandosi in lui una calma sorprendente.
 Tutti, però, ricevettero con serenità i Santi sacramenti: piansero, mentre scrivevano l’ultima lettera, ricordando la mamma.
 Il Bindi, mentre scriveva, disse a don Mario:
Dica alla mamma che non pianga, quando le darà il mio bacio, perchè io vado a star meglio. –

 Alle 17,30, dopo un’ora di angosciosa attesa, un camioncino prelevò dalle carceri Adorno Borgianni e Primo Simi, portandoli nel piazzale della caserma ‘Lamarmora’. Ivi, strazio maggiore della morte, furono tenuti per 15 minuti a sedere sopra una sedia, bendati e con le mani legate dietro la schiena; dinanzi a loro stava il plotone di esecuzione in attesa che venissero i giudici; solo allora la tragedia poteva aver termine.
 Finalmente, alle ore 18, i giudici si degnarono di giungere e furono lette le sentenze di morte.
 Fucilati i primi due, anche Masi e Bindi furono portati sul medesimo luogo. Aveva il Bindi un berretto di feltro; prima di morire lo dette a don Mario Menghi e con calma si avviò assieme al compagno verso il luogo del sacrificio; il plotone di esecuzione al loro passaggio presentò le armi.
 Però erano ancora visibili sul posto le tracce della morte dei compagni. Essi se ne accorsero, ma con un supremo sforzo poterono vincere lo sconforto. La fede li arresse nella prova suprema.
 Furono messi nella sedia, bendati e legati; poi fu loro letta la sentenza di morte.
 Il Bindi, alla terza scarica del plotone di esecuzione della compagnia di sicurezza, comandato dal capitano Zoppis, morì; ma non fu così del Masi che dovette ricevere sul proprio corpo, prima di spirare, ben cinque colpi di grazia per mano del ricordato capitano. Ma il cuore pulsava ancora, cosicchè un giovane della G.N.R., afferrato un fucile mitragliatore, lo finì con due raffiche.
  Il sangue sgorgato dalle sue ferite, facendo appiccicare al corpo la paglia, in cui si era rotolato prima di morire, lo rendeva quasi irriconoscibile.
 [..].

 Nella nostra città “si sparse … la voce, che si ha ragione di ritenere vera, che (l’avvocato) Marini influisse energicamente per fare eseguire subito la sentenza di condanna a morte pronunciata in Siena dal tribunale militare repubblicano di Firenze contro i partigiani Masi, Simi, Bindi e Borgianni, condannati il 13 marzo 1944 alle ore 13,30 e fucilati alle ore 18 dello stesso giorno in mezzo alla esecrata costernazione della città; alle ore 20 dello stesso giorno arrivò la notizia che per questi quattro martiri era stata concessa la grazia” [dal Corriere di Viterbo].

(N.B. Per Primo Simi e Renato Bindi vedasi Scheda Partigiana sul sito).

 Le ultime lettere dei fucilati di Siena ai genitori.

Lettera di Adorno Borgianni.

13 marzo 1944

Carissima famiglia,
io mi trovo condannato con la mia pena di morte
ormai il mio destino è questo fatevi tanto e tanto coraggio
ormai è così vi saluto tutti
i miei genitori e mio fratello e sorella e parenti di farvi tanto e tanto
coraggio.
Vostro figlio Adorno

Aggiungo il mio termine che ho fatto una Santa comunione
Vostro figlio Adorno
E vorrei la grazia di essere seppellito al mio paese con un bellissimo
trasporto.
Vostro figlio Borgianni Adorno.

 

Lettera di Primo Simi.

Siena 13 Marzo 1944

Cari genitori,
Vi faccio sapere queste mie notizie le quali ho avuto la confessione
perché io sono condannato a morte spero in breve tempo di avere la grazia.
Ma sarà ben difficile state tranquilli non pensate a me se muoio la mia
disgrazia è questa.
Ora vi saluto tutti in famiglia addio addio

P. Simi
Addio cari genitori
addio addio
addio babbino e mammina

 

Lettera di Tommaso Masi.

Cari Genitori e famiglia

Giorno 14 (*) mi trovo questa situazione oggi stesso mi hanno fatto il processo e mi hanno Condannato a morte ormai o dovuto farmi di questa convissione non ci sarebbe stato cavassela ma ormai mi sono messo il cuore verso questa grassia ma dopo attutto e fatto la Confessione Comunione

Cari Genitorini
datevi coraggio perchè ormai mi era destinato non si scancella io vi
chiedo perdono che rimarrete dispiacenti
 Cari Genitori ora vi dico Addio ci rivedremo in paradiso ora
baci a tutti in in Famiglia

Per fortuna mi a sistito mio Cappellano

Il vostro figliolo
Masi Tommaso

(*) Evidentemente, il povero condannato, sotto il peso degli avvenimenti ha confuso il giorno 14 col giorno 13, data della sua condanna a morte.

Lettera di Renato Bindi.

13 marzo 1944

Cari genitori e tutti i famigliari,

 Il giorno 11 Marzo mi prese la milizia che mi ha portato a Siena.

Cara mamma gli uomini mi condannano a morte e ho fatto la confessione la Santa Comunione e perdono a tutti e bacioni a tutti Voi e pregherò sempre Voi. Desidero che stiate contenti e pensatemi sempre felice che muoio contento senza peccato.

 Un giorno ci rivedremo in paradiso. Sono stato assistito dal mio Cappellano. Vi domando la Santa benedizione e Vi bacio con tutto il cuore mamma e babbo e famiglia e tutti parenti e compagni e il Priore.

Il Vostro figlio

Renato

   L’ultimo oltraggio.

 Le loro salme, la sera del 13, vennero immediatamente messe dentro le casse e portate nella camera mortuaria del cimitero del Laterino.
 Il padre di Adorno, solamente il giorno 15, seppe la notizia della morte del figlio e immediatamente fece i documenti per la traslazione del suo corpo.
 Aveva già fatto quanto era richiesto dalla legge; aveva pure condotto con sè un vigile sanitario ed un barroccio, poichè gli era stato impossibile trovare altro mezzo di trasporto, per portare via il figlio, quando invece, arrivato al cimitero, fu costretto a rinunciare al suo proposito: la guardia repubblicana non volle aderire alla richiesta dello sventurato padre.

 Non solo; ma delle due corone di fiori, che erano state deposte nella sua bara, come ha narrato il custode del Cimitero, una fu fatta togliere, perchè formata esclusivamente da garofani rossi; l’altra fu lasciata al suo posto, inquantochè composta con fiori di tutti i colori; però le fu levato il nastro in cui era scritto ” Il Popolo di Tocchi“.
 “Il Popolo di Tocchi” disero i fascisti “ha già ricevuto la nostra visita, magliene faremo altre “.
 Il giorno 15 marzo 1944, nel XXI° anno dell’era fascista, furono seppelliti Bindi, Masi e Simi; il giorno appresso Borgianni.
 
 “Ha veduto se glieli ho ammazzati ? Che credeva, che la repubblica non avesse la forza ? Glieli ammazzo tutti se non si presentano !” sono le testuali parole che il colonnello Sordi Giuseppe disse a Don Piero Raspini.
 All’occhio di colui che visita il cimitero del Laterino e nulla sa, le loro tombe certamente sfuggono: solo una piccola Croce di legno indica il nome di ciascuno. Accanto a loro riposa il corpo dell’eroico Handen: dinanzi a quella tomba ognuno di noi si può inchinare riverente.  Come durante il nostro Risorgimento molti italiani dettero la loro vita per la libertà di altri popoli conculcati, così allora un giovane francese è venuto a dare la vita per la causa della nostra libertà.
 Dobbiamo onorare le vittime della malvagia fascista e, davati ai loro sepolcri, crecare di ritrovare quella dignità nazionale che abbiamo perduta.
 Solo in tal caso sentiremo quanto profonda sia la verità che si racchiude nei versi di Foscolo:
A egregie cose il forte animo accendono
L’urne dei forti … e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta …
“.

  Le estreme onoranze ai Caduti di Scalvaia.

Siena, 23 dicembre 1944

Nella Chiesa dell’ Arciconfraternita della Misericordia un commovente spettacolo si offre dinanzi a noi: dieci bare stanno allineate sul pavimento, vicino ai gradini dell’ Altare; intorno ad esse, familiari ed amici piangono sommessamente la misera fine dei loro cari. Ogni tanto qualche madre prorompe in alti singhiozzi: ogni cuore, che non è di pietra, sente che qualche cosa di veramente tragico, quasi cappa di piombo, pesa su di sè.

Verso le 4,30 viene impartita la benedizione alle Salme, dopodichè amici e compagni di fede portano a spalla le bare fino al Cimitero della Misricordia.
 Un lungo corteo accompagna i caduti di Scalvaia alla loro ultima dimora. Prima della sepoltura, il Sindaco e Marco Marini hanno rievocato il loro sacrificio.
 Nel quadro dei caduti di guerra, accanto a Masi, a Simi e a Bindi, che già da tempo vie rano stati deposti, i dieci compagni dormono il loro ultimo sonno: essi sono ormai riuniti a quelli che, in un tempo non lontano, morirono, perchè trionfasse il  medesimo ideale.