Siro Rosi

Nasce a Sticciano il quattordici febbraio 1915. La madre si chiama Angela Marchesini e fa la casalinga. Il padre si chiama Galileo, fa il ferroviere sulla linea Asciano – Grosseto ed è socialista. Prima della grande guerra ha scritto per il “Risveglio” alcuni “pezzi di cronaca”, firmandoli “Galileo Pardo” o “Enotrio sticcianese”. Durante il biennio rosso è membro di un comitato popolare, che controlla la produzione agraria, qualche proprietario terriero si lamenta, Galileo viene denunciato insieme ad altri sovversivi. Condannato a otto giorni di reclusione in primo grado, è amnistiato in appello, poi, dopo la vittoria fascista, si trasferisce a Grosseto, appartandosi dalla vita politica.
E’ in questo ambiente familiare, ostile al regime di Mussolini, che cresce Siro Rosi. I suoi primi contatti con i comunisti grossetani sembra risalgano al ’31, forse gli fa da tramite Elvino Boschi, che sposerà sua sorella Licena. Due anni dopo – ha scritto Nicla Capitini Maccabruni – viene “espulso dalle organizzazioni giovanili fasciste (alle quali erano allora automaticamente iscritti scolari e studenti) e posto sotto il controllo della locale Questura” per aver promosso una protesta in favore degli operai edili. Poi frequenta Guido Vannozzi, Assunto Aira e Eugenio Gentili, a volte vede Aristeo Banchi e versa quote mensili di cinque lire al soccorso rosso. Ospita qualche sovversivo, riceve dei corrieri comunisti o li incontra nelle capanne intorno alla stazione. In un muro di casa pare nasconda una bandiera rossa, come riferirà al Tribunale militare di Vitoria una camicia nera nel ’38.

Nel ’37 è militare di leva a Cagliari da dieci mesi, quando le autorità militari cercano dei volontari per la Spagna. Molti anni dopo racconterà così quella scelta, che doveva segnare la sua esistenza: “…un giorno di febbraio, si venne adunati in cortile, l’intera compagnia, e ci venne annunciato che era aperto l’arruolamento per la Spagna, o meglio “per destinazione ignota”. Feci un passo avanti, per primo. E poi Pinzi (1) con me. Ci eravamo subito intesi: andare in Spagna e passare ai repubblicani”.
La domanda di Rosi viene accolta. Prima della partenza, gli viene accordata una licenza, che trascorre a Grosseto. E qui, nella bottega di Ettore Belardi, ha un colloquio con il segretario dei comunisti maremmani Aristeo Banchi, al quale espone apertamente la sua intenzione di disertare in Spagna, appena avrà l’occasione per farlo. “Ganna” gli dice che si tratta di un passo grave, carico di implicazioni non solo per lui, ma anche per i suoi familiari, Rosi, però, appare determinato e, al termine dell’incontro, i due si salutano con un caloroso abbraccio.
Qualche giorno dopo Siro si imbarca a Napoli per la Spagna, destinazione Cadice, dove arriva insieme al contingente fascista. “Il ventotto febbraio il battaglione era organizzato in tutti i reparti.

Siamo trasferiti a Dos Hermanos, un paesetto nei dintorni di Siviglia; qui iniziamo le esercitazioni tattiche, la familiarizzazione con le armi e i primi servizi e ci fanno trasportare munizioni; avvengono i primi atti di insubordinazione e si alzano lamentele per il vitto e il dormire, iniziano a entrare in funzione le catenelle da campo… Il diciannove marzo fummo trasportati in tradotta a Zafra, un paesino nella provincia di Badajoz, qui ebbi la ventura di conoscere un bravissimo compagno, Edmondo Della Santa (2), un ragazzo nato nel 1910 a Fano, biondo, taciturno, proveniente dall’aviazione. Congedato dal servizio mlitare, rimase disoccupato, fece domanda di andare a lavorare in Africa e si trovò nella Spagna di Franco. Con molta cautela riuscimmo a scoprire reciprocamente che le nostre idee convergevano. Dopo alcuni giorni decidemmo di disertare”.
Il diciassette aprile Rosi è a Cortijo de Laguna: “Il nostro reparto fu disposto sulla strada di Azuaga che porta a Campillo: il paese indicatoci dalle compagne spagnole che incontrammo a Zafra. Il grande momento finale finalmente era arrivato. Con Della Santa, dopo aver preso alcuni accorgimenti precauzionali, la sera del 18 aprile 1937, verso le venti, dopo aver fatto man bassa di munizioni e armi iniziammo la nostra pericolosa avventura, lasciando con grande dolore un solo amico: Napoli, un cane randagio imbarcato clandestinamente nella capitale partenopea e che era venuto a sfamarsi inconsciamente con tanti altri cani italiani nella Spagna di Franco”.

Insieme a Della Santa, Rosi attraversa le linee, diretto a Campillo: “Verso le quindici giungemmo in una pianura priva di vegetazione. Più lontano, circa un pao di chilometri, una collinetta le cui falde erano sterrate di fresco, forse erano trincee. E se erano trincee da chi erano occupate? Con la cautela che richiedeva la situazione ci avviammo protetti da un muricciolo. Il primo segno di vita fu un cane che udito il nostro fruscio si mise a guaire. Ormai eravamo a qualche centinaio di metri dalla collina sterrata e da questa terra rossiccia sbucarono una decina di persone, notammo che vi erano anche delle donne, erano armati, non avevano una divisa. Agitarono le armi e le mani, tolsi dal tascapane un panno e lo agitai. Gli uomini della collina armati si fecero incontro, capimmo che erano popolani, accelerammo il passo anche noi gridando col nostro cattivo spagnolo che eravamo italiani. L’incontro fu commovente, dicemmo loro che avevamo disertato per chiedere di combattere nelle file repubblicane,. Senza toglierci le armi e con grandi pacche sulle spalle, come è uso salutarsi fra amici spagnoli, ci abbracciammo”.
Trasferiti a Valencia, Rosi e Della Santa insistono per arruolarsi nell’esercito repubblicano e vengono alloggiati in una caserma: “La nostra euforia fu spenta bruscamente dopo circa una settimana che eravamo a Valencia, quando un ufficiale dello Stato Maggiore con molta gentilezza ci condusse nel carcere di San Michele, dicendoci che un amico italiano sarebbe venuto a trovarci per avere un colloquio con noi. Nel carcere erano raccolti i prigionieri di Guadalajara e detenuti politici spagnoli. Fu una doccia fredda che non riuscivamo a spiegarci. Della Santa si era completamente ammutolito. Ci sistemarono in infermeria. Ai detenuti che ci chiedevano di dove si proveniva dicevamo di essere disertori e non mancarono né scherni né insulti. Trascorremmo due giorni d’inferno…”.

Nelle giornate seguenti alcuni dirigenti del P.C.d’I. – Velio Spano, Giuseppe Alberganti e Ilio Barontini, cugino del cognato di Rosi, Elvino Boschi – si recano in carcere per parlare con Rosi e Della Santa: “Finalmente avemmo la visita di Ilio Barontini, il quale mi assalì con domande sulla sua famiglia; mi chiese notizie di vecchi antifascisti grossetani. Assieme a lui vi era il compagno Marvin ed un altro comandante di battaglione al quale mi presentò come suo “cugino”. Da quel momento fui conosciuto da tutti come il “cugino” di Barontini”. Lasciato il carcere di San Miguel, Rosi e Della Santa sono ammessi alla scuola ufficiali di Pozo Rubio, presso Albacete, e arruolati nel terzo battaglione della Brigata Garibaldi, poi, in settembre, Della Santa cade a Fuentes de Ebro e, l’anno seguente, Rosi viene ferito a Caspe e sulla Sierra Cabals.
Denunciato per diserzione dal C.T.V., Siro è condannato a morte in contumacia dal Tribunale militare di Vitoria il sedici novembre del ’38, ma, quando la sentenza viene pronunciata, è già nel campo di smobilitazione spagnolo di Torellò, insieme ai superstiti delle Brigate internazionali, ritirati dal fronte, per ordine del Governo repubblicano. E a Torellò resta fino alla caduta di Barcellona, poi ripiega verso i Pirenei e nella prima decade di febbraio entra in Francia, insieme ad alcune migliaia di volontari antifascisti di tutto il mondo e a mezzo milione di spagnoli.

Al di là delle montagne ci sono per tutti i campi di internamento, una vita di stenti in terreni semipalustri, dove la notte – con la neve, che imbianca i rilievi, e il freddo, che morde la carne – si dorme all’aperto, in una buca, scavata nella sabbia, mentre i più fortunati si riparano con qualche straccio o coi resti dei copertoni dei camion. Nell’aprile del ’40 Rosi è prigioniero a Gurs, insieme al comunista Riccardo Molina, agli anarchici Gennaro Gramsci e Aldo Demi, al trotskista Guido Lionello, a Raffaele De Luca e a molti altri ex volontari di Spagna, in seguito finisce nel campo di sorveglianza speciale del Vernet d’Ariège (descritto da Koestler con drammatica efficacia), da dove, il ventitré ottobre, scrive al padre che, nonostante “la grande fame che regna nell’ambiente in cui vivo, come salute sto ottimamente”.
Arresasi la Francia nel giugno del ’40, la Commissione italiana di armistizio chiede – in esecuzione dell’art. 21 della convenzione di armistizio italo – francese – la consegna di Rosi, sul cui capo grava ancora la condanna a morte pronunciata dai giudici militari di Vitoria. Per evitare che venga fucilato dai fascisti, i compagni lo aiutano a evadere dal campo il trentuno agosto del ’41 e lo mettono in contatto con i “Francs-tireurs-partisans”, insieme ai quali opera prima nella regione di Tolosa, poi in quella di Lione. Ha il grado di capitano, va a Nizza e a Saint-Étienne, si fa chiamare Juan Medinas.

Dopo un sabotaggio viene arrestato e rinchiuso nel carcere di Saint-Joseph, a Grenoble, ma riesce a fuggire e, tornato fra i partigiani, perde un occhio durante un’azione.
Al principio del ’44 è nell’Italia settentrionale, dove svolge compiti importanti nella lotta contro i nazifascisti. Designato ispettore regionale della Delegazione lombarda del Comando generale delle Brigate d’assalto Garibaldi, si trova nella zona di Dongo, quando viene catturato Mussolini, ed è lui ad arrestare alcuni gerarchi repubblichini. Finita la guerra, fa per qualche tempo il segretario della Federazione comunista grossetana, finché espatria di nuovo, forse temendo l’emissione di un mandato di cattura, non essendo stata annullata la sentenza di morte a suo carico per la diserzione in Spagna.
Va prima in Francia, poi dimora in Polonia per alcuni anni. In Italia torna soltanto quando si celebra, nel ’57, il processo per l’oro di Dongo, il “tesoro” della R.S.I., quasi 16 milioni di franchi francesi e oltre 60 mila dollari, che nel ’45 ha portato da Chiavenna a Milano. Si tenta di accertare dove quel denaro sia finito o come sia stato usato. Rosi figura fra gli imputati. Voci, diffuse ad arte per screditarlo, lo vogliono ricco proprietario, la sua vita è invece spartana, per di più risulta “nullatenente”.

Il giornalista Mario Passi commenta” “Questo è uno dei pochi punti fermi del processo assieme alla consegna degli altri ingenti valori recuperati a Chiavenna e portati a Milano da Siro Rosi. Lo stesso procuratore generale ieri ha dato atto delle indagini fatte compiere dietro suo ordine dai carabinieri a Grosseto in seguito alle voci che volevano Rosi avesse portato nella sua città natale il “tesoretto” della moglie del ministro Romano e avesse acquistato delle proprietà: queste indagini documentano che osi è povero in canna e nulla possiede a Grosseto. Dopo quanto già si sapeva dell’esistenza eroica e tribolata di questo valoroso combattente quest’ultimo documento esibito dal procuratore generale chiude completamente la bocca ad ogni possibile calunnia”.
Negli anni seguenti Rosi lavora a Roma, fa il funzionario alla Direzione del PCI e si dedica alla pittura, per la quale trae spunto dai paesaggi maremmani. Si spenge nel 1987.

Appendice:
Aristeo Banchi. Siro Rosi
Dal Corpo Truppe Volontarie (fasciste) alle Brigate Internazionali
“Ho fame!” Lettera di Siro Rosi alla madre Angiolina dal Vernet Angelo Rossi. Siro Rosi al Vernet
Note
1)Marino Pinzi è nato a Prata il diciannove settembre 1915. Iscrittosi al P.C.I. dopo la liberazione, è stato consigliere comunale e assessore a Grosseto. Il diciotto ottobre 1952 assunse la gerenza del periodico comunista “Riscossa democratica”, subentrando a Esuperanzio Pelletti. Autore di varie pubblicazioni, vive attualmente nel capoluogo provinciale.

2)Edmondo Della Santa nacque a Fano (Pesaro) il tredici settembre 1910. Soldato in Spagna nel CTV, disertò a Cortijo de Laguna (Andalusia) e si unì ai repubblicani, che controllavano il villaggio di Campillo. Incorporato, qualche mese dopo, nella 12ª Brigata Garibaldi, cadde il quindici settembre 1937 a Fuentes de Ebro: “La compagnia di Della Santa – ha scritto Rosi – giunge sotto i primi fortini fascisti appoggiata da due carri armati sovietici e in questo attacco Edmondo Della Santa morì falciato dalla mitraglia fascista” (Elenco dei volontari antifascisti italiani caduti nella guerra civile spagnola, cit., p.234; Lucioli, Roberto. Gli antifascisti marchigiani nella guerra di Spagna (1936-1939), cit., p.66; La Spagna nel nostro cuore, 1936-1939…, cit., p.163). Nello studio di Lucioli si legge che Della Santa andò in Spagna come “pilota delle Frecce Azzurre” e fu ferito dai fascisti, mentre disertava.
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Aristeo Banchi. Siro Rosi
“I miei rapporti con Rosi cominciarono nel 1933, quando mi fu presentato da suo cognato Elvino Boschi. Negli anni seguenti non mi pare di averlo visto spesso, poi, nel ’37, quando era militare di leva a Cagliari con una compagnia di sanità, venne in licenza per qualche giorno a Grosseto e mi fece sapere che voleva incontrarmi. Ci trovammo nella cappelleria del compagno Ettore Belardi in via Aldobrandeschi. La sua compagnia, mi disse Rossi, doveva essere impegnata in un’“operazione oltre mare”, cioè trasferita in Spagna per combattere a favore di Franco. Siro era intenzionato – appena arrivato nella penisola iberica – a disertare per passare con i repubblicani. A me chiese un parere, io gli risposi che il passo era grave e richiedeva coraggio, anche perché era carico di implicazioni.

Lui la decisione l’aveva già presa e appariva risoluto. Al termine del colloquio ci lasciamo commossi, sperando di poterci rivedere. Di Rosi – prosegue Banchi – non avemmo notizie a Grosseto fin quando alla porta di casa sua nell’attuale via Don Minzoni venne affissa copia della sentenza del Tribunale militare che lo aveva condannato a morte. Il documento e le notizie che rapidamente si diffusero in città lo resero molto popolare fra gli oppositori, tutti si domandavano chi era questo Rosi che aveva sfidato il fascismo. Io lo rividi solo molti anni dopo, nel giugno del 1945. Ero con altri compagni sotto il loggiato del Municipio, quando lo incontrai, ci abbracciammo, mi raccontò qualcosa sulle sue peripezie nel campo del Vernet in Francia, della cattura del ministro Romano e di sua moglie, dei capitali che [i due] avevano con sé. Qualche mese dopo Rosi – aggiunge Banchi – fu eletto segretario della Federazione comunista grossetana. Non tanto tempo più tardi, mentre si recava a Milano per un convegno, lesse sul “Gazzettino di Verona” un articolo dove si diceva che il partigiano Lino era il segretario della Federazione comunista di Grosseto. Rosi non rientrò allora in Maremma, il partito lo mandò subito a Varsavia, dove rimase, con la moglie francese e i figli, per molti anni, poi, tornato in Italia e assolto nel processo di Padova, si trasferì a Roma”.

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Dal Corpo Truppe Volontarie (fasciste) alle Brigate Internazionali
“Copie per i fascicoli personali K.I.B.45

07521-K.I.B.45=Casalinga
13/3/1939

Copia della nota del Ministero della guerra – Comando del Corpo di Stato maggiore – S.I.M. n.3/4944 del 28/2/1939-XVII diretta al Ministero Interno – Dir. Gen.P.S.

Ministero della guerra
Comando del Corpo di Stato maggiore S.I.M.

Roma, 28/2(1939-XVII

Risposta al fogº 28/12/1938 Nº 441/052655

Minº Intº – Dir. Gen. P.S. Roma

Oggetto: Sudditi italiani arruolati nell’esercito rosso spagnolo

Le camicie nere che avrebbero aderito alla propaganda fatta loro dai rossi quando furono catturate prigioniere sono state identificate nei seguenti individui:

Giovanni Berrina (non Besina), nato il 14 maggio 1913 a Marsiglia, già appartenente alla 2ª Divisione volontari, VIIº Gruppo Banderas, 2ª Batteria d’accompagnamento, catturato a Guadalajara il 22 marzo 1937. Il Berrina figura domiciliato a Marsiglia;
Carlo Gazzaniga (non Carmelo Gazzanica), nato il 12 febbraio 1906 a Savona, ivi domiciliato in via Mazzini 38, catturato sul fronte di Guadaljara nel marzo 1937, già appartenente al battaglione “Tempesta”. In sede di interrogatorio avrebbe dichiarato di appartnere da tempo al partito comunista. Ha moglie e un figlio residenti a Savona;
Emilio Guarducci (non Gerarducci), di anni 32, mobilitato del 22º Reggimento Fanteria, catturato a Guadalajara nel marzo 1937, già appartenente, in O.M.S., al 2º plotone mortai del Iº gruppo banderas. Il Guarducci è domiciliato a Buneos Aires, Calle Alvarado 879;
Danilo Cervia da Ortanova (Spezia) della classe 1910, mobilitato della 383º Legione M.V.S.N. di Massa, appartenente in O.M.S. alla Iª divisione volontari, 2º gruppo banderas. Catturato prigioniero a Guadalajarra il 14 marzo 1937. Recentemente rimpatriato e rinchiuso nel carcere di Gaeta perché colpevole di diserzione;
Siro Rosi di Galileo e di Mascherini Angela, nato il 14 febbraio 1915 a Roccastrada (Grosseto), già soldato nella Iª brigata mista “Frecce Azzurre”, datosi disertore a Cortijo de La Laguna il 19 aprile 1937, incorporato come miliziano nella 2ª compagnia del 3º battaglione della 12ª brigata internaizonale “Garibaldi”, ora disciolta.
Non è stato invece possibile identificare i nominati Angelo Pizio e Casalinga da Genova.

il Colº di S.M. Capo Servizio
il T. Colº di S.M. vice Capo Servizio
f.to Umberto Broccoli” (1)
Note
1)Altri italiani, che disertarono dal C.T.V. per passare nelle Brigate Internazionali, furono Andrea Pipitone, Luigi Caiola, Giovanni Iannuccelli, Domennico Nocito, Giuseppe Lagonigro e Pietro Benitente.
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“Ho fame!” Lettera di Siro Rosi alla madre Angiolina dal Vernet
“Vernet, 11 dicembre 1940

Carissimi,
scrissi una precedente dove vi dicevo tondo e netto le mie condizioni e domandandovi se potevate inviarmiun pacco con contenuto mangiabile… ho fame.
Potrei scrivervi direttamente per avere un carteggio più regolare ma sono completamente sprovvisto di denari. Sicuramente rimarrete meravigliati del come mi esprimo in questa e nelle altre [lettere], ma vi prego, mettete da parte la forma e lo stile, sforzandovi di interpretare questa nel suo senso reale e concreto. Attendendo quello che vi chiedo se siete in condizioni di inviarlo e nella misura delle vostre condizioni economiche mandatamenlo… ho fame.
Saluti sempre vostro Siro”
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Angelo Rossi. Siro Rosi al Vernet
“Al Vernet ci siamo andati nel maggio del ’41 fino al settembre dello stesso anno, poi per decisione dell’organizzazione politica quelli che ci avevano le condanne a morte, con l’espatrio clandestino in tempi di leva, come ero io, ci avevano già visitato nei campi di concentramento i rappresentanti del governo fascista italiano, ci avevano interrogato per sapere quello che avevamo fatto, se avevamo l’espatrio clandestino, se eravamo renitenti di leva. Rispondevano: “Va bene, l’Italia è generosa, un anno di galera ti va?” Ci rifletto”, tutti dicevamo così. C’erano… dei disertori, c’era uno di Grosseto, un certo [Siro] Rosi, attualmente abita a Roma, fu richiamato sotto le armi e venne mandato in Spagna e al fronte di Estremadura passò alle Brigate internazionali e fu un combattente fino alla fine, è stato nei campi di concentramento come me, ma in Italia non poteva rientrare perché era condannato a morte. Quindi a lui l’organizzazione lo fece scappare dal Vernet, mi ricordo che gli detti un mio paio di pantaloni e per gli altri che restarono la posizione del partito era quella di rientrare in Italia. Sono stato capocellula. Dalla seconda volta che si tornò ad Argelès feci parte del comitato di direzione…”

( Tratto da ” Gli antifascisti grossetani nella guerra civile spagnola” di Fausto Bucci, Simonetta Carolini, Andrea Tozzi e Rodolfo Bugiani –  Follonica 2000)

(La seconda e terza foto sono tratte da ISGREC – Grosseto  www.isgrec.it)