Raffaele SCHIAVINA

 

     Figlio di Angelo e Albina Lodi, nasce a San Carlo (FE) l’8 aprile 1894. Ragioniere, emigra negli Stati Uniti d’America nel 1913 e si stabilisce a Brockton (Massachusetts), dove, in principio, si dice socialista, “ non certo per conoscenza o convinzione ragionata, ma solo per non dare l’impressione di essere un conservatore ”. Nell’estate 1914, a un pic – nic, riceve da un anarchico italiano, “parecchio più anziano” di lui, le “Memorie” di Kropotkin e altre pubblicazioni libertarie, che lo convincono ad abbonarsi alla «Cronaca sovversiva», il periodico anarchico antiorganizzatore, edito da Luigi Galleani a Lynn, poi interviene ad alcune conferenze dello stesso Galleani e nell’aprile 1916 accetta, “con l’entusiasmo di un neofita”, l’incarico di amministratore del giornale, sul quale preannuncia, il 27 maggio, che gli U.S.A. si apprestano ad entrare in guerra per impadronirsi di mercati mondiali sempre più estesi e impedire agli “straccioni di dentro” di alzare la testa, e non per soccorrere il Belgio occupato dai tedeschi.  In seguito scrive che solo l’“azione efficace e decisiva del chirurgo” potrà sanare la miseria delle classi povere, che è male organico della società borghese, e solidarizza con il muratore anarchico Antonio D’Alba, “abbandonato da tutti” dopo l’attentato a Vittorio Emanuele III, poi ripete che il presidente Woodrow Wilson trascina il popolo statunitense dentro il macello europeo nell’interesse esclusivo dei capitalisti americani, ai quali è asservito.

Arrestato come “associated editor” della «Cronaca sovversiva», Schiavina resta in carcere fino al settembre del 1917, quando ottiene la libertà provvisoria, pagando 1.000 dollari di cauzione, e a fine anno subisce una condanna a 12 mesi di reclusione per aver rifiutato di registrarsi “nelle liste di reclutamento dell’esercito americano, fra i possibili combattenti”. Nella circostanza il Consolato italiano di New York informa il Ministero dell’Interno che è un “buon parlatore” e un “efficace propagandista” (il 18 febbraio 1917 ha tenuto, a Bridgewater, una conferenza sulla “lotta per l’esistenza”), che “si professa apertamente anarchico” e che “deve ritenersi pericoloso”.

Scontata la pena, Schiavina viene deportato in Italia il 24 giugno 1919, assieme a Luigi Galleani, G. B. Fruzzetti, Giobbe e Irma Sanchini, e il 9 luglio 1919 sbarca a Napoli, dov’è arrestato per diserzione. Rilasciato il 2 settembre 1919, grazie all’amnistia di Nitti, si trasferisce a Torino al principio del 1920, per redigere, con Galleani, la seconda serie della «Cronaca sovversiva», per la quale, firmandosi “R.S.”, “Boy” e “Cesare”, stila vari articoli sugli eccidi di Modena e di Decima di Persiceto, sulle lotte anticapitalistiche del proletariato italiano e sull’“imminente” rivoluzione sociale, sul sabotaggio socialista e confederale dell’“unità proletaria” e sull’urgenza di distruggere gli istituti repressivi borghesi, liberando tutti i prigionieri politici, “da Musso Guglielmo a Pietro Acciarito”.

Soppressa la «Cronaca sovversiva» in seguito alla pubblicazione di alcuni articoli antimilitaristi, è condannato a 250 lire di multa e a 5 mesi di detenzione con la condizionale, in quanto amministratore del giornale, poi, nell’agosto 1921, è arrestato a Fabriano, con l’accusa di aver organizzato gli Arditi del Popolo a Torino, e incarcerato sino all’ottobre 1922, quando, insieme agli altri imputati (una decina di comunisti, a lui sconosciuti fino al processo), viene assolto “perché la montatura non reggeva”.

Il 30 gennaio 1923 critica, su «L’adunata dei refrattari» di New York, la magistratura italiana, che ha condannato Galleani per un reato di stampa e denuncia la tremenda strage di sovversivi, perpetrata, a Torino, dalle bande fasciste di Brandimarte nel dicembre 1922. Due mesi dopo emigra in Francia, su invito di un antico collaboratore della «Cronaca sovversiva», Emilio Coda, “venuto apposta dagli Stati Uniti”, e a Parigi dà alle stampe, dal 21 aprile al 29 settembre 1923, sei numeri de «La difesa di Sacco e Vanzetti», per strappare alla sedia elettrica i due anarchici italiani. Lo stesso anno pubblica «Primo maggio», “a beneficio delle vittime politiche”, e collabora, firmandosi “Bob”, “Cesare”, “X.Y.”, ecc., a «La rivendicazione» di Parigi e a «L’adunata dei refrattari» di New York, sulla quale afferma che gli “aventiniani” non sono in grado di rovesciare il fascismo, moralmente liquidato dall’assassinio di Matteotti, e che per liberare il popolo italiano è necessario andare alla guerra civile, non “di sicarii contro santi inermi”, ma “di armati contro armati”, di uomini contro belve, del pensiero contro la forca, della vita contro la morte.

Nel settembre 1924 difende Giovanni Corvi, che, per vendicare Matteotti, ha ucciso il deputato Armando Casalini, vicesegretario delle Corporazioni, giacché l’atto di Corvi gli sembra molto più savio degli inviti alla mansuetudine degli “aventiniani”, e in novembre sottolinea che l’anarchico Ernesto Bonomini, sotto processo a Parigi per aver sparato al fascista Nicola Bonservizi, ha dimostrato, “nell’anticamera della ghigliottina, che il suo gesto è quello di un uomo consapevole che rivendica, col proprio sacrificio, la libertà colpendo, in nome di vittime infinite, chi la libertà calpesta”.

Convinto assertore della partecipazione degli anarchici a un’insurrezione antifascista, a fianco del proletariato italiano e di “altri fattori rivoluzionari”, scrive però che, dopo la vittoria, dovrà essere cacciata anche la monarchia, che ha coperto le ribalderie e i crimini del fascismo, e che nessuna cooperazione dovranno dare gli anarchici alla nascita di un altro regime autoritario. Nel 1925 ripete su «Il picconiere», il giornale che Paolo Schicchi redige a Marsiglia, di essere contrario a qualunque organizzazione o partito anarchico, a ogni gestione libertaria dello Stato, che non cesserebbe di essere autoritario “il giorno in cui gli anarchici se ne rendessero padroni”, e a qualsiasi revisione della tattica libertaria, perché in “tempo di reazione non si deve cedere al nemico un centimetro di terreno; se no, si è fritti”. Nell’aspra polemica, innescata da Schicchi contro gli anarchici italiani, che hanno collaborato con Ricciotti Garibaldi, ignorando – come gli altri antifascisti – che il degenere nipote dell’eroe dei due mondi era al soldo di Mussolini, Schiavina interviene su «L’unione dei padellai», un numero unico edito da Schicchi a Marsiglia il 25 settembre 1925, stilando l’editoriale “Padelle e padellate”, in cui , senza scendere agli insulti, di cui abusa l’anarchico palermitano, critica, oltre ad Erasmo Abate, Alberto Meschi e altri ex garibaldini, anche Luigi Damiani e Errico Malatesta, che non sono entrati nella diatriba, considerandola “un dibattito personale”.

Autore di un lungo saggio su William Godwin, che appare a puntate su «L’adunata dei refrattari», Schiavina fonda a Parigi, il 24 ottobre 1925, «Il monito», dove torna sulle responsabilità degli “aventiniani” nella disastrosa crisi Matteotti, evidenzia l’equivoco ruolo del “Corriere degli italiani” di Parigi ed esalta gli illegalisti e tutti coloro, che hanno imbracciato le armi contro lo squadrismo: “Peotta e Pollastro, non ultimi, ma neanche soli, sono di quelli che hanno accettato la lotta a coltello, che si sono battuti, possiamo dire, eroicamente, che si sono difesi, difendendo la libertà, la dignità dell’uomo e le speranze della rivoluzione sociale, rispondendo colpo su colpo”.

L’8 gennaio 1927 difende l’integrità politica di Gino Lucetti dalle diffamazioni dei comunisti, che hanno provato ad iscriverne l’attentato fra le “commedie complottistiche” di Mussolini, e nel novembre 1927 annota che la politica economica di Lenin e Trotsky ha portato alla rinascita della vecchia Russia capitalistica e reazionaria, con privilegi e privilegiati. In dicembre denuncia il neo bolscevismo della “Piattaforma” di Petr Arsinov e Nestor Mackhno, elaborata per minare “tutto l’armamentario teorico dell’anarchismo” e dar vita a un partito autoritario, al quale “non abbiamo di meglio da opporre che le ragioni fondamentali dell’anarchismo”. Già colpito, nel 1926, da un decreto di espulsione dalla Francia ed esortato da Emilio Coda e Giovanni Solimini a tornare negli U.S.A., Schiavina sbarca a New York nel marzo 1928 e il mese seguente subentra a Ilario Margarita alla guida de «L’adunata dei refrattari», riportando il periodico agli eccellenti livelli, che aveva raggiunto quando era redatto, con intelligenza e passione, da Costantino Zonchello, e forse ancora più in alto, grazie alla collaborazione di Camillo Berneri, Max Nettlau, Luigi Damiani, Sébastien Faure, Aldo Aguzzi, Ugo Fedeli, Dando Dandi, Giuseppe Mascii e dello stesso Zonchello. Nei 43 anni, in cui, più che redattore, è l’anima del giornale, Schiavina stila migliaia di articoli, note e saggi, firmati “Bob”, “Cesare”, “Max”, “Max Sartin”, “Calibano”, “Manhattanite”, “L’osservatore” e “Melchior Seele” o siglati “m.”, “m.s.”, “r.s.”, “X.Y.”, ecc., cura le rubriche “Cronache sovversive”, “Brevi polemiche”, “Le giberne di Stalin” e “Giornali, riviste e libri” e si occupa dei principali eventi italiani e internazionali.
Sul giornale di New York Schiavina prosegue la battaglia contro le deviazioni ideologiche dell’anarchismo, negando che associazione e organizzazione siano sinonimi, perché la prima lascia libertà di iniziativa e la seconda è, invece, autoritaria, anche quando è composta da anarchici, si oppone al revisionismo de «Il martello» di New York, che si riallaccia alle posizioni filo – democratiche di Carlo Molaschi e al neo – bolscevismo della Piattaforma di Arsinov e Mackhno, e rifiuta il sindacalismo in tutte le sue varianti, perché ha poco da spartire con l’anarchismo e, quando non è esso stesso partito, è “scuola dell’arte della politica”, trasforma gli anarchici in funzionari sindacali e politicanti e insegna loro a comandare, “a coltivare i suffragi” e a “diventare conciliatori per necessità”; contrario al sovietismo, Schiavina sottolinea che, come i consigli comunali e il Parlamento, esso trova legittimazione nel suffragio e ha giurisdizione su porzioni più o meno estese del territorio, mentre l’anarchia deve “incominciare sul posto di lavoro e di residenza”, senza delegare ad altri la gestione degli interessi individuali e collettivi; scrive che lo Stato e le sue istituzioni dovranno essere abbattuti da “un atto insurrezionale delle grandi masse” e dalla “logica suprema delle armi”, e che la ricchezza sociale verrà sottratta a chi se ne è appropriato con la frode e lo sfruttamento e restituita ai veri produttori con l’espropriazione fisica (non quella giuridica, “perché ove sorgesse” il potere di legiferare, “ivi sarebbero le radici di un nuovo Stato”); ripete che alla “rivoluzione – risulti essa profondamente sociale o superficialmente politica in definitiva – noi dobbiamo partecipare come anarchici. Come demolitori – quando tutto resta ancora da demolire – prima che come ricostruttori. Mai come ricostruttori di un regime autoritario”.
Fra le cause del fascismo Schiavina segnala l’esaurirsi della democrazia, il degrado dei valori morali, prodotto dalla guerra mondiale, la paura dei privilegiati per l’avvento del bolscevismo e i conflitti tra lavoro e capitale, poi descrive le violenze delle squadracce di Balbo, Dumini e Carosi e insiste sul sostegno del capitalismo italiano e internazionale a Mussolini e sulla complicità della monarchia, che ha incaricato l’uomo di Predappio di formare il governo dopo la marcia su Roma, tacendo poi sugli assassinii degli oppositori e temporeggiando dopo la bestiale soppressione di Matteotti; osserva che il concordato ha sottomesso gli italiani alla “duplice tirannia del birro e del prete”, assicurando alla corona “la solidarietà e la simpatia dei quasi 300 milioni di cattolici sparsi per tutto il mondo” contro il pericolo insurrezionale e offrendo al capitalismo mondiale “un pretesto spirituale d’intervento in caso di rivoluzione”, condanna l’aggressione fascista all’Abissinia, invita il popolo italiano a non farsi complice di Mussolini in un’impresa “immorale” e “brigantesca”, “che resta tale”, anche se in Abissinia persistono dei “focolai” di schiavitù, e smaschera le aberrazioni razziste e antiebraiche del fascismo in Italia e nelle colonie.
Quanto alla lotta al regime di Mussolini, Schiavina esclude che possa ridursi a una “contesa politica” per la conquista dello Stato, rinfaccia alla Concentrazione antifascista il moderatismo, che le fa difendere il privilegio, “in odio alle aspirazioni emancipatrici del proletariato”, e la spinge a predisporre una soluzione, che consenta alla borghesia di restare in sella nel dopofascismo e neghi qualunque spazio e ruolo attivo ai diseredati; invita le “folle popolari italiane”, che “con fervore” lottano contro gli “schiavisti” in camicia nera, a ignorare gli appelli di Nitti, di Labriola e degli altri concentrazionisti, che hanno giurato fedeltà al re quando erano deputati e hanno votato per Mussolini il 26 novembre 1922, perché – sottolinea – nella “Concentrazione è la salute della borghesia”, mentre le “forze di combattimento del proletariato devono lottare sotto altra bandiera, pel trionfo della Rivoluzione Sociale”; sottolinea l’indifferenza per la giustizia economica (“quella vera”!) del programma di “Giustizia e libertà”, che è visceralmente ostile al “comunismo” (cioè a qualsiasi sistema rivoluzionario, che voglia risolvere la questione sociale) e al fascismo, ma tace sugli aiuti forniti a Mussolini dalla monarchia, dalla chiesa cattolica e dalla massoneria, che ha foraggiato la marcia su Roma “con fior di milioni”; respinge le pretese di “Giustizia e libertà” che le forze proletarie scendano a un compromesso con le classi abbienti, rinunciando alla rivoluzione sociale, perché gli interessi dei lavoratori sono incompatibili con quelli degli sfruttatori; afferma che, dopo l’abbattimento dei “neri” , gli anarchici non dovranno concedere tregue alle altre forze antifasciste, come è, invece, accaduto in Spagna nel 1931, dove il governo moderato ha avuto il tempo di prepararsi a reprimere i successivi moti rivoluzionari, né diventare complici di un moto sociale, che degeneri in regime autoritario, ma dovranno presentarsi al popolo italiano “senza maschere”, come demolitori di tutti i privilegi e fiancheggiatori disinteressati dei lavoratori nell’espropriazione delle ricchezze; ha parole severe per gli antifascisti “seri e concreti”, che giustificano gli attentati, che avvengono in Italia, e condannano quelli, che hanno luogo all’estero, come è successo più volte in Francia e come è accaduto di nuovo, dopo la morte di alcuni impiegati statunitensi nell’ufficio postale di Easton, a seguito dell’anticipata esplosione di alcuni pacchi di bombe spedite ai fascisti italiani:

   “Qualunque sia l’origine delle bombe dello scorso dicembre, il fascismo – ribadisce Schiavina – è moralmente responsabile dell’eccidio di Easton perché è il fascismo che ha avvelenato il sangue degli italiani con una scuola di corruzione e di fratricidio che dura dal 1919, condannando gli italiani ad essere strumenti venali della sua ferocia o ribelli disperati contro la sua tirannia. A quest’alternativa non è scampo che nella rassegnazione beota, che conduce alla vergogna e alla rovina”;

rifiuta il fronte unico proposto dai comunisti, pur essendo convinto, dopo la vittoria di Hitler, dell’urgenza “di far fron te alla marea travolgente della reazione”, ricorrendo alle “forze elementari della rivoluzione sociale” e a un “fronte unico dal basso”, perché quello comunista non è il fronte unico dei lavoratori o dei sovversivi, ma il fronte “dei capi dei vari partiti che sono o si dicono rivoluzionari, e noi non vogliamo diventare capi di partito”, e perché il programma dei comunisti è talmente annacquato che persino i fascisti potrebbero sottoscriverlo; deplora che non pochi antifascisti confidino nella Società delle nazioni per abbattere Mussolini, dimenticando che essa è un’accozzaglia di briganti, raccoltisi in Santa Alleanza per schiacciare il proletariato rivoluzionario; registra, indignato, che al Congresso di Bruxelles l’“antifascismo serio e concreto” non ha esitato ad invitare i fascisti ad unirsi ai lavoratori italiani per reclamare la pace e ha taciuto, ancora una volta, sulle responsabilità della monarchia, dell’alta finanza, della grande industria, ecc., nei misfatti della dittatura, deplora che i comunisti conducano una “strabiliante” campagna per “la riconquista del tricolore”, sul quale “fino a ieri bestemmiavano”, e che non si peritino di chiamare fratelli i fascisti, cioè “i sicari del proletariato d’Italia”, toccando il fondo dell’abiezione con gli appelli alla riconciliazione con i “Dumini d’Italia”, i massacratori e gli assassini di Pietro Ferrero, Giacomo Matteotti e Michele Della Maggiora; scrive che, per quanto riguarda l’aggressione all’Abissinia, i socialisti, i repubblicani, la L.I.D.U., la C.G.L. e la Federazione anarchica dei profughi italiani sono molto lontani dall’opposizione interna, popolare e rivoluzionaria, che lotta contro il fascismo e la guerra coloniale, disertando, scioperando e sacrificandosi:

   “La sola opposizione rivoluzionaria alla guerra e al regime fascista è quella che – grande o piccola – fanno i lavoratori italiani, e qualunque altra a questa non si innesti nei mezzi e nei fini, è pretesa vana e frode scellerata”.

Non pochi articoli di Schiavina – di forte tensione ideale – sono dedicati agli attentatori, alle vittime della reazione, agli “uomini in rivolta” e agli espropriatori, per i quali il redattore de “L’adunata dei refrattari” prova e mostra rispetto e ammirazione:

 “I nomi di Ravachol, Henry, Vaillant, Caserio, Angiolillo, Bresci, Novatore, Zamboni, risplendono come fari di luce inestinguibile sulle vie dell’avvenire. Sono eroi nell’anima, volontari del sacrifizio e della morte. Con mano sicura la diedero e con cuore fermo l’accolsero, salutando dal patibolo il sogno intravvisto e accarezzato nei cuori generosi”.

Fra loro Schiavina non manca di ricordare l’illegalista Vittorio Pini, finito e morto alla Cayenne, dopo aver pubblicato alcuni fogli anarchici, difende Ernesto Bonomini, accusato dai socialisti di essersi fatto “manovrare” da un commissario di p.s., si schiera, senza tentennamenti, dalla parte degli artefici della tremenda strage al Consolato di Buenos Aires del 23 maggio 1928, che – queste le sue parole – vengono “moralmente assolti dalla stessa spontaneità del sospetto che sopra di loro cade quasi inavvertitamente… L’attentato deve essere anti – fascista perché nessuno più che gli avversari del regime fascista ha ragioni per compierlo… 7 anni di sangue  e di stragi inaudite, nei quali nulla e nessuno fu rispettato dai masnadieri della monarchia e del capitalismo”; si dichiara addolorato per il fallimento dell’evasione dal carcere di Parigi, messa a punto dall’illegalista Sante Pollastro, in “condizioni estremamente difficili”, con “tenace volontà” e “viva intelligenza”, e gli augura che “l’avvenire lo serbi a migliore fortuna”; rimprovera ai “moralisti” anarchici di non riuscire ad immaginare che un espropriatore “possa passare in mezzo alle ricchezze ed uscirne” incontaminato, scrive che l’”atto individuale perfetto” di Gaetano Bresci non differiva dalla strage del Teatro Diana, giustificata, a sua volta, “dalla violenza e dalla ferocia della reazione”, e deplora che gli anarchici, che erano stati solidali con il tessitore pratese, non abbiano saputo e voluto difendere Aguggini e Mariani, “spianando la via” al linciaggio giudiziario di Milano; protesta contro l’“ignominiosa estradizione” nell’Italia fascista del “compagno Sante Pollastro”, del quale pochi, “conoscendolo personalmente, erano in grado di testimoniare della rettitudine adamantina del suo carattere, della costante armonia della sua rivolta permanente e temeraria coi principi anarchici, dai quali si sentiva inspirato…”.

Difende il socialista Fernando De Rosa dai socialisti belgi, che hanno definito “stupide” il suo attentato a Umberto Savoia, con “la perfidia tradizionale del socialismo”, genuflesso quotidianamente davanti al re, e dai socialisti italiani, talmente gretti da precisare che l’attentatore non era “il solito energumeno anarchico”: De Rosa, “che rivendicate a denti stretti, – tuona Schiavina – non è già figlio del vostro apostolato di dedizione e di rinuncie, ma di una situazione nuova, tragica – conseguenza fatale della vostra insensibilità alla sofferenza del popolo – in cui la tirannia e lo sfruttamento portati all’ultimo estremo della ferocia, generano spontanea la rivolta in difesa del diritto incoercibile alla vita e alla libertà”; ha parole di solidarietà per un altro giustiziere tragico, il repubblicano Alvise Pavan, condannato a 10 anni di carcere dal Tribunale della Senna per aver liquidato il provocatore Angelo Savorelli, un antico sodale, che aveva tradito la dottrina e gli ideali del “grande ligure”, e non dimentica Camillo Berneri, cascato ingenuamente nella trappola di Ermanno Menapace; segnala l’arresto di Paolo Schicchi in Sicilia, pur avendolo trattato prima da “calunniatore vile” e “ricattatore spregevole”, reagendo ai suoi volgari insulti, rende omaggio a Severino Di Giovanni e Paulino Scarfó, arrestati in Argentina, con le armi in pugno, e fucilati dopo una farsa di processo, a Michele Schirru, a Domenico Bovone e a Angelo Sbardellotto, mandati al patibolo dal Tribunale squadrista, a Doro Raspolini, deceduto nelle carceri di Sarzana, dopo aver cercato di vendicare il padre, atrocemente trucidato dagli “schiavisti”, e non si tira indietro, quando c’è da battersi per Marinus Van der Lubbe, un sovversivo olandese, accusato dalla vociante Internazionale di Mosca di aver incendiato il Reichstag per incarico dei nazisti.
Anche il capitalismo statunitense, il proletariato minerario, per il suo enorme coraggio e la sua abnegazione, e i pellerosse, sterminati da un orribile genocidio, sono seguiti da Schiavina con molta attenzione. Il paese, dove egli è rientrato nel 1928, conta 5 milioni di disoccupati, è scosso da disperate rivolte operaie, è dominato da una borghesia corrotta e vorace, affiancata da una polizia feroce, non è capace di versare una lacrima davanti alla morte di 2500 minatori all’anno, assiste inerte alla cancellazione delle libertà di stampa, parola, associazione e domicilio, come è successo nel 1917, con la soppressione dei giornali pacifisti, e negli anni seguenti, con le deportazioni di centinaia di sovversivi e gli arresti dei minatori in agitazione; il capitalismo americano non è secondo “a nessun altro paese nella barbarie e nella vastità dei suoi eccidi”, fomenta i linciaggi del Ku – Klux – Klan e dell’American Legion e le uccisioni di propagandisti sovversivi, organizzatori comunisti e lavoratori in sciopero, viola le leggi antitrusts per concentrare immense fortune in poche mani, sfrutta le terre degli indiani e il sottosuolo, dopo aver relegato i nativi in miserabili riserve, e arresta i negri, che osano opporsi ai soprusi dei bianchi;

“ La classe dominante americana è figlia della rapacità inglese: come questa avida e senza scrupoli; come questa bestiale e sanguinaria”: i minatori, però, resistono “con incoercibile determinazione” ai massacri, che “non hanno nulla da invidiare agli orrori dello squadrismo”, alle cariche della forza pubblica e ai suoi gas, ai tradimenti dei sindacati gialli e all’indifferenza dei socialisti e degli I.W.W.; agenti statali e detectives privati assalgono i cortei che gridano la loro miseria nei feudi di Henry Ford, ammazzano i manifestanti, sparano sugli anarchici e danno la caccia ai comunisti, che meritano di essere difesi – scrive Schiavina – per le stesse ragioni per cui difende i militanti perseguitati dai comunisti in Russia; severo con Franklin Delano Roosevelt, il nuovo presidente americano esaltato come innovatore dalla borghesia e da una parte dei lavoratori, Schiavina è convinto che non riuscirà a “rimettere in moto l’attrezzatura economica del paese”, né è tenero con lui, perché non ha dimenticato quando era un acquiescente sottosegretario alla Marina nel governo di “aguzzini, sbirri e agenti provocatori” di Wilson, che approvava leggi tiranniche contro la libertà di stampa, parola e riunione e deportava gli anarchici in Europa.

Per Schiavina il comunismo è e rimane nemico mortale dell’anarchismo e della rivoluzione sociale, è il restauratore di uno “stato tiranno assoluto”, retto da una “casta privilegiata”, che in Russia si fregia della denominazione di partito comunista e in Italia di quella di partito fascista, ma che, allo stesso modo, vuole schiavizzare il “popolo lavoratore” e regolare la vita dei singoli e delle collettività in veste di padrone, legislatore, poliziotto, banchiere, giornalista; il comunismo ha bloccato in Russia lo sviluppo del processo rivoluzionario, ha affogato nel sangue “ogni tentativo insurrezionale” dei gruppi che avevano capito in quale abisso il paese stava precipitando, ha mandato in galera e deportato in Siberia i “naturali difensori della rivoluzione”, i socialisti rivoluzionari e gli anarchici, bandendoli nel 1919 e sterminandoli a Kronstadt nel 1921, ha permesso la sopravvivenza del capitalismo privato, tanto che, a 5 anni dall’“instaurazione della N.E.P., le classi che effettivamente esercitano il potere in Russia sono la burocrazia governativa, sindacale e politica; i Nepmen (cioè gli arricchiti della N.E.P.) e i Kulaks, cioè i grandi proprietari terrieri”; il comunismo – prosegue Schiavina – scivola inevitabilmente verso la destra e la fazione di Stalin impedisce a quella di Trotsky di partecipare alla vita del paese come

 “la fazione rivoluzionaria di Lenin e di Trotsky sin dal 1918 e dopo, con immutato fervore e con cieca ferocia, rubò alla Rivoluzione Russa il contributo di pensiero che migliaia e migliaia di anarchici e di socialisti rivoluzionari non chiedevano che di portarle. L’arma con cui Trotsky, a fianco di Lenin, uccise la Rivoluzione Sociale in Russia, serve oggi a Stalin per uccidere il partito comunista in Russia e snervarlo per tutto il mondo”;

i tiranni di Mosca imprigionano e liquidano gli anarchici e i rivoluzionari, da Francesco Ghezzi a Raia Chulmann e a Zenzl Mühsam, come fanno i fascisti in Italia con i loro avversari: “Ma se nell’abisso dell’ignominia estrema in cui delirano la crudeltà, la cupidigia e la paura dei despoti, le gerarchie dei valori sono ancora possibili, gli assassini di Mosca sono un gradino più in basso degli assassini di Roma, i quali per giustificare lo squartamento di Pietro Ferrero e di Giacomo Matteotti, la tortura di Gastone Sozzi o la fucilazione di Michele Della Maggiora, non hanno mai sentito il bisogno di accusarli di tradimento alla propria fede, di calunniarli presso i loro compagni, di ucciderli moralmente prima di sgozzarli fisicamente. I fascisti rossi di Mosca riabilitano insieme i fascisti tricolori di Roma e il medioevo della cattolica inquisizione”;

lo sconfitto Trotsky suscita un commento al vetriolo, dopo una sconcertante “gita turistica” a Pompei, nell’Italia fascista, nel 1932:

   “Che i comunisti ufficiali del partito russo fossero bene trattati dalle autorità della monarchia fascista, si sapeva da un pezzo. Che lo stesso trattamento sia usato al comunista fuori linea Trotsky, fa piacere. Si vede che il governo fascista lo considera sempre come un candidato al potere bolscevico e in questa previsione è prudente a non mettersi nella condizione imbarazzante in cui si trovò nel 1922 il governo svizzero che, dopo aver condannato ed espulso il disertore Mussolini, dovette ritirare i suoi vecchi decreti ed assumere un atteggiamento di scusa. Leon Trotsky ha tuttavia altre benemerenze agli occhi del governo fascista. Leon Trotsky è dittatore in esilio, e i dittatori italiani possono senza sforzo soverchio immaginare se stessi come suoi colleghi in disgrazia, in un lontano avvenire. Inoltre, Leon Trotsky è l’assassino di Kronstadt, che con la sua ecatombe di 14000 vite umane, rappresenta il trionfo dell’assolutismo statale, e una gloria di spedizione punitiva quali il fascismo stesso non ha mai neanche osato sognare”;

in quanto alle purghe staliniane, Schiavina non crede che l’uccisore di Kirov, Nicolaiev, e le centinaia di russi giustiziati nel dicembre 1934 fossero “guardie bianche” della controrivoluzione e considera il processo a Zinoviev e Kamenev dell’agosto 1936 un’autentica “porcheria, che non ha nulla da invidiare all’inquisizione clericale o laica…”; davanti ai giudici gli imputati non hanno dato prova di alcuna dignità, “nulla che lontanamente” rassomigliasse “alla fierezza indomita di Saint Just davanti al patibolo”, e, “forse per rendere un servizio al dittatore”, si sono politicamente e spiritualmente suicidati:

“Sono stati tutti condannati a morte. Saranno fucilati, oppure si contenterà il dittatore di libare l’abbiezione infinita di cui hanno dato spettacolo miserando, pago di aver bollato in fronte a Trotsky, con la solennità di un processo manifestamente ammaestrato, il marchio “infamante” del terrorismo individuale?”

In altri articoli Schiavina tratteggia l’“indomito” guerrigliero Augusto Sandino, che, con poche centinaia di ribelli, tiene in scacco 6.000 fanti della marina americana, e si occupa del Mahatma Gandhi, di cui non condivide metodi e dottrine:

Non è possibile convenire colla dottrina della non resistenza al male, a meno di precludersi ogni possibilità di raggiungimento del bene. La resistenza passiva propugnata in nome della indipendenza indiana da Mahatma Gandhi che n’è il riconosciuto profeta, è già una forma di resistenza. E, siccome non è concepibile una forma di resistenza passiva, per la contraddizione dei termini”, la non violenza di Gandhi è una pratica “assurda, inumana, suicida, che annulla tutti i migliori propositi della disubbidienza civile assicurando al governo l’impunità di tutte le più feroci repressioni. Il popolo indiano non sarà mai libero finché obbedirà alle massime rinunciatarie dello stremenzito profeta della sua indipendenza…”.

Un posto speciale nella “produzione” di Schiavina ha la Spagna, di cui scrive sin dalla proclamazione della repubblica, mettendo in rilievo che la caduta di Alfonso XIII ha determinato soltanto un cambiamento della facciata del potere, senza distruggere veramente l’antica tirannia, mentre nessuna illusione si può nutrire nei confronti dei movimenti autonomisti, e in special modo di quello catalanista, che resta formazione borghese e patriottica, profondamente ostile al proletariato e ai suoi bisogni e, pur cercando l’aiuto degli anarchici contro il governo di Madrid, li accusa di aver favorito la repressione dell’autonomia, scatenando lotte avventuristiche e provocatorie. Nella primavera del 1936 Schiavina depreca l’elettoralismo della C.N.T. e della F.A.I., che non ha svolto propaganda astensionista e ha invitato gli anarchici al voto per agevolare la vittoria del Fronte popolare, ed ha una lunga polemica con Camillo Berneri, di cui respinge le argomentazioni e le accuse ai militanti libertari più coerenti.

L’8 agosto 1936 Schiavina scrive che, fallito il tentativo dei militari sediziosi di impadronirsi di tutto il paese, la guida della repubblica resta, a Madrid e a Barcellona, nominalmente nelle mani della sinistra borghese, dietro il cui “paravento” operano i comitati socialisti e sindacalisti, il cui potere resta da definire. Il governo del fronte popolare, però, tradito da gran parte dell’esercito e dei corpi di polizia, “esautorato politicamente perché abbandonato dalle classi borghesi nel cui interesse governava, moralmente perché vittima della propria imprevidenza”, non avendo rimosso dalle forze armate, dopo la strepitosa vittoria del 16 febbraio, i generali e i colonnelli, che cospiravano contro la republbica, si è dovuto appellare al popolo, “alle sue organizzazioni politiche ed economiche d’avanguardia” e “all’ardore rivoluzionario dei diseredati, per non perire ignominiosamente”, ed oggi manca di qualunque base, “all’infuori dell’ala estrema del socialismo e dell’anarco – sindacalismo”.

Questa forte contraddizione, che evidenzia il carattere rivoluzionario della situazione e la sua anomalia, cesserà allorché il comune nemico fascista sarà debellato e si potrà passare dalla guerra civile alla rivoluzione sociale, se le masse e le avanguardie saranno capaci di svolgere un’azione decisa per affermare i propri diritti e le proprie libertà: “Esautorato il governo, l’espropriazione della ricchezza – necessità inderogabile della difesa – dovrebbe compiersi senza ritardo e in maniera definitiva”.  Il 19 settembre Schiavina puntualizza che sarebbe un grave errore credere che nella penisola iberica si combatta semplicemente contro il fascismo e per il ritorno alla democrazia: si lotta anche per sovvertire il vecchio regime economico, sociale e morale, per distruggere la proprietà privata e per strappare le ricchezze a un’esosa minoranza, insomma per quella rivoluzione sociale, alla quale ha sacrificato la sua vita, dopo una lunga militanza, l’anarchico Michele Centrone, che “si sarebbe sentito offeso da chi avesse detto che andava a combattere ed a morire per dar lustro alla patria”: “In Ispagna – conclude Schiavina – si compie la rivoluzione sociale”.

Contrario all’ingresso degli anarchici spagnoli nei governi repubblicani di Madrid e di Barcellona, Schiavina contesta ai militanti della C.N.T. e della F.A.I. l’antica inclinazione opportunistica, che li aveva spinti a contrarre “impegni e compromessi col Macismo” e a favorire il fronte popolare nel febbraio 1936, e il torto di non aver fatto “piazza pulita”, dopo il 20 luglio 1936, dei “traditori del Fronte Popolare”, che non avevano voluto prevenire il sollevamento dei militari e che, a partire dall’agosto del 1936, per bocca del comunista Jesús Hernández, avevano cominciato a minacciare il movimento libertario di sterminio. I controrivoluzionari del Fronte popolare – annota Schiavina – non sono stati liquidati, anche se si sapeva benissimo che avrebbero rialzato la testa, non appena avessero trovato i loro lanzichenecchi, forse perché gli anarchici spagnoli non avevano la forza sufficiente per liberarsi di loro, ma se così stanno i fatti non si vede per quali motivi di un caso di forza maggiore si pretenda di fare un programma politico. In realtà la C.N.T. e la F.A.I. – continua Schiavina – non hanno preso parte alla rivoluzione da anarchici o anarco – sindacalisti (“se quest’ultima denominazione conservi ancora qualche parentela con l’anarchismo”), cioè restando fedeli ai principi libertari, ma vi sono intervenuti come “organismi politici autoritari e governativi”, entrando nelle compagini repubblicane di Madrid e Barcellona: “Non è l’andare alle masse che attenua e conduce al fallimento l’anarchismo. D’altronde senza la simpatia e spesso la cooperazione attiva di grandi masse non si fanno rivoluzioni. Al fallimento si corre inevitabilmente andando alle masse con un anarchismo attenuato per via da concezioni fondamentali che ne alterano i caratteri, i metodi e i fini”. Quanto alla cessazione del fuoco nelle giornate di maggio del 1937, gli “Amici di Durruti” e altri anarchici e rivoluzionari – puntualizza – “erano per la resistenza” a oltranza all’offensiva scatenata dai comunisti e dai moderati contro la rivoluzione sociale, che ha portato all’assassinio di militanti libertari come Francesco Barbieri e Camillo Berneri, al quale rende omaggio in numerosi articoli e in un opuscolo.

Incluso dai fascisti nella prima categoria dei nemici del regime, i sovversivi attentatori, Schiavina denuncia la precarietà e l’iniquità della “pace di Monaco” del 29 settembre 1938, dalla quale la Germania, “dominata da una tirannia sordida e bestiale, esce più grande e più potente di quel che non sia mai stata”, mentre la politica dei “paesi cosiddetti democratici” precipita nel “fallimento della bancarotta più fraudolenta e ignominiosa”, e bolla la scelleratezza del patto russo – tedesco di “non aggressione, di amicizia e neutralità” del 23 agosto 1939, nuova tappa “dell’involuzione fascista del bolscevismo”, dei “carnefici della rivoluzione russa”, dei “corruttori cinici del movimento operaio e del movimento rivoluzionario” mondiale, anche se l’improvvisa rivolta delle democrazie occidentali, “nel momento in cui i fascisti rossi si ricongiungevano coi fratelli del fascismo nero o bruno”, gli appare “più che sospetta”, e tale da far supporre che “l’odio ostentato non sia per quanto di male i bolscevichi hanno fatto e fanno, ma per quanto di aspirazione emancipatrice – collegata con le loro origini – sopravvive, malgrado il ventennio deformatore della loro attività scellerata, presso le masse diseredate…”.

Schiavina ritiene che il secondo conflitto mondiale sia semplicemente una guerra imperialista, scatenata “per fini criminali di supremazia”, e nel luglio 1941, dopo l’attacco nazista all’U.R.S.S., ripete che l’intervento “delle armi russe” non modifica “il carattere imperialista della guerra attuale”, perché la Russia è sempre stata nella guerra, come l’Italia e gli Stati Uniti, “con calcoli, preoccupazioni ed aspirazioni imperialistiche”. Parlare, poi, “di guerra antifascista è tempo perso. Le classi dominanti, per conto delle quali i governi fanno la politica e la guerra, sono così permeate di fascismo che ogni tentativo di classificazione dei paesi in fascisti, filo – fascisti e non – fascisti diventa sempre più difficile”.

Dopo la conclusione del conflitto, Schiavina resta saldamente ancorato alle sue convinzioni antiorganizzatrici e nel 1949 respinge i deliberati (per lui non vincolanti), approvati dal Congresso anarchico di Livorno della F.A.I. per controllare le redazioni di “Umanità nova” di Roma e de “Il libertario” di Milano. Nel 1951 difende – in tre lunghi articoli – la memoria di Camillo Berneri, smentendo, fra l’altro, che in Francia il compagno, assassinato dai comunisti a Barcellona, reclutasse attentatori per la Concentrazione antifascista, e contestando a Giovanni Artieri e ad Alberto Mondadori, giornalista e direttore di “Epoca” di Milano, di non aver avuto il “minimo scrupolo di raccogliere una prova sola delle calunnie di cui si facevano trasmettitori e complici”.

Nel 1959 scrive che il movimento di Fidel Castro, che ha cacciato dall’isola il dittatore Batista, è in politica democratico e sul terreno economico “vagamente riformista”, e non anarchico, malgrado l’adesione degli anarchici alla sua “fase demolitoria”. A Cuba – reciterà in seguito – ha avuto luogo

 “una rivoluzione popolare culminata nei primi mesi del 1959 con tre avvenimenti di grande importanza: la caduta della dittatura di Batista, una larga trasformazione delle basi economiche del Paese, l’emancipazione economica e politica dal vassallaggio statunitense. Quella fu incontestabilmente una rivoluzione di carattere popolare, necessaria e benefica in se stessa – per quel che ha distrutto di tirannico, di retrogrado e di oppressivo – e meritevole di essere difesa contro chiunque tenti di annullarla – perché segna la via ai futuri progressi del popolo cubano”.

La rivoluzione – continua Schiavina – non può essere identificata con la persona di Fidel Castro e del suo movimento autoritario, né essere ripudiata interamente, come pretendono coloro che, per combattere il castrismo, si spingono fino a riabilitare il batistismo.

Il 29 agosto 1959 Schiavina saluta la liberazione di Sante Pollastro, rilasciato dopo più di trent’anni di reclusione, e nel 1961, dopo il fallimento dell’invasione anticastrista alla Baia dei Porci, si dichiara recisamento avverso “a qualunque intervento di governi esteri nelle domestiche faccende di Cuba – e d’ogni altro paese”, segnala la riduzione delle libertà nell’isola caraibica, dove sono stati soppressi persino i “piccoli giornali anarchici”, e si pronuncia, ancora una volta, in favore dei diritti e delle aspirazioni del popolo cubano, che non deve passare dal vassallaggio americano a quello sovietico.+

Successivamente pubblica un saggio, a puntate, intitolato: “Il sistema rappresentativo”, e nel 1962 dà spazio ad alcuni appelli per il rilascio degli anarchici cubani, arrestati da Castro. Nel 1965 condivide le posizioni di Armando Borghi e degli anarchici italiani contrari al Patto federativo, approvato dal Congresso di Carrara del 31 ottobre – 5 novembre, e negli anni seguenti critica i tentativi “annessionistici” della Commissione di corrispondenza della F.A.I., cioè degli “strutturatori”.

Conclusasi l’esperienza cinquantennale de “L’adunata dei refrattari” nel 1971, Schiavina scrive su “L’internazionale” di Ancona i necrologi di molti vecchi compagni, da Nicola Recchi a Giuseppe Mascii, da Angelo Salerno a Vincenzo Crisi, da Michele Magliocca a Jenny Danny. Di Mascii, di cui apprezzava “la capacità di espressione”, racconta: “Il 19 luglio 1936 suonò dalla Spagna alla mente e al cuore dei rivoluzionari di tutte le parti del mondo come una campana a stormo a cui migliaia e migliaia di ardimentosi d’ogni età risposero con slancio pieno di entusiasmo e di abnegazione. Mascii partì da Parigi insieme a Fantozzi e a Berneri – afferma il compagno Giuseppe Mioli – il che vuol dire che “giunsero a Barcellona il ventuno o il ventidue luglio”. Ed in Spagna rimase durante quattro mesi, uno dei quali passato in un ospedale. Ritornato in Francia attese al severo compito di lavorare per assicurare il pane a se stesso e alla famiglia”.   Di Crisi, emigrato in America nel 1922 e collaboratore de “L’adunata dei refrattari” dal 1926, ricorda: “La sua vita si immedesimava con la vita del Circolo, che ebbe a Detroit per mezzo secolo… un seguito considerevole, adoperandosi con zelo al successo non solo del giornale al quale collaborava, ma anche a tutte le molte altre iniziative che venissero prese all’interno del paese o nel resto del mondo dai compagni…”

Schiavina chiude la sua esistenza operosissima, spesa tutta, con esemplare coerenza, per l’ideale libertario e rivoluzionario e per l’emancipazione dei lavoratori dalle catene materiali e ideologiche di ogni specie, a Salt Lake City (Utah) il 23 novembre 1987, a 93 anni di età.

 

 

[ Scheda di Fausto Bucci e Gianfranco Piermaria ]